Tutti odiano Sanremo: dal Blasco ubriaco al Lauro indorato, dove è andata la musica?
di Francesco Sicheri [user #65794] - pubblicato il 10 febbraio 2025 ore 12:22
È di nuovo quel momento dell'anno. Sanremo è alle porte, e i leoni da tastiera saranno già intenti a fare stretching per sciorinare quanto prima il loro disappunto per il Festival della Canzone Italiana. Non che le critiche siano sempre vuote, ma è anche vero che la settimana sanremese si è guadagnata l'attenzione incondizionata degli hater di ogni categoria, prima su tutti quella dei musicisti.
Amatori, professionisti, semi-professionisti e amanti della professione… Ma anche sedicenti tali, strimpellatori domenicali, imbonitori di piazza, solfeggiatori da sagra della fregola, coristi della domenica, sindacalisti del suono, avvocati dell’intonazione: tutti odiano Sanremo.
Cominciò come Festival della Canzone - diceva Enzo Biagi a Linea Diretta nell'85 - poi dalla canzone si passò all'attore, ed ora c'è la tendenza ad imporre il personaggio. Lo chiamano "look", ma a me pare che per certi aspetti ricordi di più il circo. Domanda: ma è utile questo Festival di Sanremo?
L’avversione per il Festivàl unisce l’Italia da Nord a Sud, mette pace fra partiti di destra e di sinistra, e aizza anche coloro che sono soliti alzare la mano per chiedere di poter andare in bagno a casa propria. Ma perchè? Le parole "questa non è musica" sono tra le più battute sulle tastiere italiane durante la settimana sanremese. Che il Festival interessi o meno, può comunque essere intrigante provare a capire come sia arrivato a scatenare tanto odio e ribrezzo fra chi la musica dice di viverla.
Suvvia, almeno una volta nella vita, tutti abbiamo inneggiato al sacrilegio guardando Sanremo. C'è chi lo confessa e c'è chi mente.
È una tradizione che si rinnova di anno in anno, malgrado il tempo l'abbia resa un po' stantia, e anche un po' avvilente. Con una dose d’impegno così importante profusa in una diatriba che ha decisamente fatto il suo tempo, viene da chiedersi come tutto sia iniziato. Quando, e per quali motivi, le cose sono cambiate per sempre?
Rivoluzioni, shock, ribellioni e incetta di cuoricini
Sanremo è un’istituzione, questo non si tocca ma… Citando il grande saggio Toni Bonji: dove sono le istituzioni? Dov’è Sanremo quando serve qualcuno che faccia da garante per la musica italiana? Una volta c’era, ma da tempo non c’è più.
L’avversione di molti nasce proprio lì, in quel tradimento che ha portato la melodia italiana, ma soprattutto la canzone, a sparire in favore di comparsate stupefacenti prima, e testicoli strizzati poi. La canzone si è progressivamente nascosta dietro la gonna dell’emancipazione dal pudore generale.
Il risultato? Una progressiva trasformazione del Festival nel circo del “gretto”, nella fiera delle stranezze. Scardinare i dogmi che imbrigliano la creatività, si è "tradotto" in una tutina trasparente indossata per inneggiare ad una vita in Rolls Royce come “contenuto” dell’esibizione.
La caccia al rotocalco e alla notizia di costume hanno sconfitto la canzone. Questo è accaduto anche perché il progresso tecnologico ha fornito al Festival, una piattaforma social sulla quale far sfoggio dell’eccentrico e della “diversità” come titolo in grado di esonerare da qualsiasi esame qualitativo. Rose distrutte, corpi spogliati senza necessità e baci liberamente rubati all’interno di un programma fin troppo preventivato, si sostituiscono al sesso di quella Gianna che nel ‘78 Rino Gaetano raccontava con una certa impavidità, ma anche con tanta grazia.
Una volta sdoganato, il clamore contagia chiunque incontri, e la pantomima televisiva diviene l’obiettivo principe della partecipazione al Festival.
Quando la melodia regnava e nessuno protestava
C’era una volta Sanremo, il Festival della grande melodia italiana, un’epoca in cui il massimo della trasgressione è un acuto ben piazzato. L’orchestra domina incontrastata, gli arrangiamenti hanno un fare sontuoso e i testi grondano amore, nostalgia e struggimento. Ma soprattutto, la fruizione musicale passa obbligatoriamente dal filtro radiofonico e televisivo. L'accesso alla musica è limitato, accuratamente incanalato in quell'imbuto strutturato fra radio e tv. Si tratta di un imbuto dal collo strettissimo, perché in molti si riuniscono in famiglia, con amici e con i vicini pur di poter assistere al Festival tramite una televisione condivisa (ironico no?), miraggio del futuro imminente, detentrice di una nuova verità.
Nilla Pizzi e Claudio Villa incidono l’anima del pubblico con melodie (e movenze) che ancora oggi rimangono casi di studio. Nel 1958 arriva Nel blu dipinto di blu, e improvvisamente ci si accorge che la musica può osare. Negli anni ‘60, l’Italia comincia a guardarsi intorno: le influenze beat e rock si fanno più presenti, ma sempre permeando il tessuto musicale nostrano con circospezione. Il Molleggiato scandalizza i benpensanti con ben 24.000 baci, mentre Mina e i Dik Dik provano a portare un po’ di quella sfrontatezza inglese che già miete vittime all’estero.
Dal cantautorato al prog in onore del separatismo
Gli anni ‘70 segnano una fase di transizione. Da un lato, il Festival rimane legato alla tradizione melodica, ma dall’altro cominciano a irrobustirsi le radici del cantautorato impegnato, con penne come quelle di Lucio Dalla (a questo punto un veterano del Festival), Francesco Guccini, Francesco De Gregori e Fabrizio De André.
È qui che la divisione fra musica leggera e musica impegnata, tanto nei temi quanto nell'approccio compositivo, si fa sempre più evidente. L'idea che il Festival si “svenda” alla mercé della “musica fatta solo per un fine commerciale" nasce proprio come giustapposizione dell'impegno cantautoriale, e conseguentemente dell'impegno tecnico-compositivo.
Più di una volta il cantautorato snobba Sanremo, prediligendo le piazze alla scalinata dell'Ariston, preferendo il contatto diretto con il pubblico alle chiacchiere di convenienza con Mike Bongiorno, Corrado, Carlo Giuffrè e Nuccio Costa.
Le nuove sonorità prog iniziano comunque a emergere: Lucio Battisti porta un nuovo stile di scrittura e interpretazione, mentre gruppi come PFM e Banco del Mutuo Soccorso avvicinano il prog rock italiano al pubblico mainstream, seppur con poca presenza diretta al Festival (entrambi in gara soltanto nell’85) .
Non lasciateli cantare!
Il 1980 è l'anno della deflagrazione. Col senno di poi la conduzione di Claudio Cecchetto risulta quasi emblematica, indubbiamente significativa nel suo marcare una netta divisione fra ciò che era e ciò che sarà. Toto Cutugno, Ricchi e Poveri, Albano e Romina, Umberto Tozzi, Eros Ramazzotti e Matia Bazar si impongono su una decade dove a macinare consensi è la melodia affabulatrice, ben costruita, ma pur sempre leziosa.
Allo stesso tempo però, prende corpo una corrente ribelle, che vuole una vita spericolata, e che con il galateo sanremese ci si pulisce il culo. È l’84 quando Loredana Bertè lascia il Bel Paese senza parole con un pancione finto, gesto che alcuni giornalisti considerano talmente sconsiderato da chiedere l’eliminazione della Bertè dal Festival.
Se la Bertè provoca con un messaggio chiaro e potente, Vasco fa terra bruciata di tutto ciò che è “ordinario” sul palco dell’Ariston. Il 1982 segna la prima esibizione a Sanremo di un Blasco che in futuro si sarebbe mostrato all'Ariston quasi incapace di parlare, ma soprattutto di cantare. Non che ce ne siabisogno, però, perché nell’83 è sempre Vasco ad abbandonare anticipatamente un’esecuzione di Vita Spericolata, puntando il dito in maniera evidente contro l’imposizione del playback. Non sarà l’unico, anzi.
Dalle sue apparizioni al Festival, Vasco si porta via soprattutto il titolo di condottiero di un filone alternativo alla mondanità di Sanremo. Ma basta e avanza.
Perché Sanremo è Sanremo…
E non tutti sono dei fan. Negli anni ‘80, e in maniera sempre più intensa nei ‘90, diventa evidente come Sanremo si stia distaccando dal tessuto sociale italiano. L’istituzione Sanremese, una sorta di inquisizione spagnola per i ceti sonori del Paese, risulta sempre più distante dal progredire dei tempi, musicali e non.
Fra un playback di cui si fanno beffe anche ospiti internazionali illustrissimi, e una formula da ballo delle debuttanti, Sanremo è sempre più lontano da ciò che la scena musicale, e il pubblico, sono diventati.
Al festival si oppongono due filoni di pensiero: uno lo rinnega in quanto falsa rappresentazione del concetto di “musica italiana”, l’altro lo sbeffeggia senza però snobbarlo, anzi avvantaggiandosi del suo sempre più evidente “carrozzone”.
Negli anni ‘90 la presenza a Sanremo è qualcosa di obbligatorio per godere del trampolino mediatico: se si è disposti a obbedire, mamma Rai apre le porte del mondo.
Tutti a ‘90 (all’ora)fino al Bug del Millennio
Accanto alla tradizione melodica, emergono generi come il fantomatico “rock italiano”, il pop elettronico e le prime influenze rap (perché se in Italia siamo sempre in ritardo, a Sanremo si va indietro nel tempo). Ligabue, 883, Zucchero e Elisa riescono comunque a infondere nuova linfa in un Festival che sembra ormai auto-limitato alla velocità di un pachiderma paleolitico. Grazie a nomi come Samuele Bersani e Daniele Silvestri negli anni ‘90 trova spazio anche una nuova proiezione del cantautorato: impegnato, sì, ma capace di accettare i compromessi… Impegnatino, quindi, perché il vero impegno si mostra soprattutto lontano da Sanremo.
Gli anni 2000 fanno sì che la crisi interna della macchina Sanremese venga a galla in maniera sempre più evidente. La società e la tecnologia, e quindi anche la musica, cambiano feccia e direzione ad ogni batter di ciglio, mentre Sanremo affronta l’idea di trasformazione con la stessa capacità di prendere le curve di una muscle-car: inesistente.
I primi anni 2000 sono condotti, su e giù dal palco, per inerzia. Sanremo procede per schiaffi, non tanto sul piano musicale quanto su quello organizzativo. Il Festivàl si barcamena in un limbo di soluzioni vetuste, dimenticandosi di puntare su quella musica che - anche non invogliata - a tratti emerge comunque: da Sentimento degli Avion Travel a Luce di Elisa, passando per Controvento di Arisa, giusto per nominarne tre.
Sanremo approda al miglio verde, ma mamma Rai non ci sta. Se ospiti come Oasis, U2 e Madonna non bastano, cosa sarà mai successo da portare l’attenzione di tutti su qualcosa che non sia lo schermo del televisore? In maniera quasi surreale sembra che la gloriosa Tv di Stato e il Festival non si siano accorti che il mondo naviga su velieri inesistenti, e connesso da comunicazioni che viaggiano più velocemente di quanto mai visto fino a quel momento.
Il tempo stringe e il popolo avanza
Internet prende il posto di tutti - ma proprio tutti - i mezzi di comunicazione, e pone le basi perché la spettacolarità possa registrare reazioni in maniera diretta, commentata e popolare. Computer, e successivamente smartphone, diventano un veicolo di fruizione, ma soprattutto di interazione. Il 2004 diventa il nuovo anno zero, perché Facebook prende il largo negli USA, e da quel giorno il mondo non è più lo stesso. Il 2008 è l’anno in cui il social network di Zuckerberg fa il botto anche in Italia, ed è lì che anche il Festival trova la soluzione alla sua crisi.
Per una capriola si ottiene un like, e quindi perché non distruggere le rose di Sanremo per qualche migliaio di pollici all’insù?
Che pacchia! Che ci sia, o non ci sia, la musica sul palco di Sanremo non fa la differenza, ma Vasco l’aveva già detto nell’83… Da Claudio Villa a Musica di Elettra Lamborghini è un attimo, ma anche dal Blasco ubriaco al Lauro indorato non passa molto, soprattutto se a fare da cartina tornasole sono le visualizzazioni.
Al Festivàl manca la musica? In parte sì. Mancano le Mina e i Dalla, ma mancano anche ospiti come Stevie Wonder, Louis Armstrong, Queen, Whitney Houston e David Bowie.
La musica manca nella misura in cui Rose Villain - nei giorni pre-Sanremo 2025 - dichiara di essere femminista e pertanto di sentirsi libera di essere sensuale, dimenticandosi di dover anche comporre prima, e cantare poi. In fin dei conti il sesso che Gianna faceva mentre la gente si svestiva, avveniva all’interno di una provocazione intellettuale che permetteva a una gravidanza (seppur finta) di mostrarsi sul palco più brillante d’Italia per muovere gli ingranaggi del pensiero.
Il provocatorio è bello solo quando è litigarello, scade presto quando è fine a sé stesso. Ma Sanremo non sembra averlo ancora capito del tutto.
Dal 2000 in poi, l’unica vittoria di Sanremo è stata quella di comprendere che l’importante è far parlare di sé. Che se ne parli, quindi, però provando a lasciare un po’ di spazio per quelle quattro o cinque proposte degne di nota che comunque, anche quest’anno, sono presenti in scaletta.
Joan Thiele, Lucio Corsi, Noemi, Giorgia, Brunori Sas, Simone Cristicchi, e se in un periodo di grazia anche i Modà, sono tutti artisti che meritano di essere ascoltati e valutati in maniera appropriata nel contesto pop in cui si propongono. Se ciò che conta è davvero la musica, allora si può anche ignorare il contorno clickbait che il Festival vuole forzare come “contenuto” di una formula - quella sì - vecchia tanto quanto l’idea di Emittente di Stato stessa. Così come d’obbligo per chiunque navighi quotidianamente il panorama musicale: cercare sotto la coltre deve essere il motto per chi vuole provare a sopravvivere a Sanremo.