di Pietro Paolo Falco [user #17844] - pubblicato il 24 agosto 2024 ore 13:25
La sperimentazione sonora più recente tira via gli amplificatori dalle catene del suono, prima sostituendoli con simulatori e poi escludendoli del tutto per timbriche a dir poco originali. A ben vedere, però, c’è chi lo faceva già mezzo secolo fa.
È bello parlare di legni e di pickup, ma c’è una verità a cui non si può sfuggire: l’amplificatore e il cabinet che vi si collega rappresentano una fetta enorme nell’equilibrio sonoro generale, quando si parla di una chitarra elettrica.
Di solito sono l’anello intorno al quale si costruisce tutto il proprio setup. Anche quando ci si interfaccia con una catena virtuale, fatta di simulazioni e software, rappresenta sempre il punto di partenza su cui si cercano poi di aggiungere tutte le sfumature del caso. È il nostro suono base, ed è chiaro: la chitarra elettrica nasce così, e ragionare in modo diverso sembra innaturale. Se ci si aggiunge qualche esperimento - che tutti prima o poi facciamo - di collegare la chitarra e magari un bel distorsore nella scheda audio o nel mixer senza altri filtri di mezzo, scoprendo “pernacchie” cacofoniche e inutilizzabili, è chiaro che l’idea di cercare un suono senza un amplificatore alla base finisce per essere accantonata in men che non si dica.
Poi, però, accade che la ricerca timbrica vada oltre, fuori dai classici schemi, e la produzione musicale richieda qualcosa di troppo distintivo per arrivare da un setup tradizionale. Qualcuno lo ha rincorso con studio e ricerca, altri ci si sono imbattuti quasi per caso: tirare via amplificatore e cabinet dalla catena del suono, a volte, può riservare risultati eccezionali e non è affatto una novità in certi ambienti.
Ancora una volta, il digitale ci mette lo zampino.
La nuova ondata di macchine virtuali, dopo l’assalto dei sistemi di modeling più avanzati e della profilazione, è sfociata in breve nella tendenza di comporre pedaliere con effetti programmabili misti a simulatori di amplificatori e cabinet, rinunciando talvolta così all’amplificazione tradizionale. Al posto di combo e testate ci si trova con uno stompbox che mira a imitarne la risposta, o al blocco sullo schermo di un multieffetto. La tentazione di tirare via quel dettaglio - il cui peso sembra ormai ridotto a quello di qualsiasi altro effetto - è forte.
Così, gioca coi pedali, tirane via uno e spostane un altro, nei casi più estremi si è scoperto quanto interessanti possano essere determinati suoni ficcati dritti in un banco di missaggio o in una scheda audio, senza passare per niente per un ampli o per i suddetti simulatori.
La sperimentazione in questo senso è sempre più diffusa e, se da un lato ci si diverte a parlare di “suoni nuovi”, tra chi si fa portabandiera di una nuova visione sonora e chi si tiene stretto il metodo tradizionale, dall’altro lato può accadere che tali esperimento finiscano per non essere proprio così avveniristici.
Suonare senza amplificatore è una pratica vecchia quanto la chitarra elettrica stessa, e basta sbirciare dietro le quinte di alcuni album storici per sorprendersi di quanti toni iconici siano nati proprio così.
Nel jazz o nella musica acustica non ci si sorprende a scoprire che un bel suono, caldo, rotondo e definito, arrivi semplicemente collegando un jack a un buon mixer. Compressori, equalizzatori e la dolce saturazione appena avvertibile di un banco analogico d’annata fanno il resto.
Meno scontato è quando ci si muove nei territori del rock, dove la presenza di un amplificatore valvolare ben tirato per il collo sembra imprescindibile.
Perciò ci si stupisce scoprendo che le chitarre di “Another Brick In The Wall” arrivano da una Les Paul dritta nel mixer (sembra che l’assolo sia stato poi passato attraverso un amplificatore poi dato nuovamente in pasto al mixer, ma ci sono versioni discordi sul tema).
Pare che anche Jimmy Page, per il riff di “Black Dog”, non abbia usato altro che una DI Box, compressori da studio e un mixer.
Nei distorti si parla forse di mosche bianche, ma nei clean l’invito a scoprire le sfumature di un buon mixer, di una chitarra, e nient’altro, è ben saldo nella tradizione.
Non si contano le ritmiche funk che guadagnano di percussività e presenza proprio per la scelta di ficcarle dritte in un banco, a volte giusto con una DI di mezzo (qualcuno ha detto Nile Rodgers?).
Questo articolo non vuole essere una panoramica esaudiente sui più bei suoni di chitarra nati senz’ampli. Piuttosto, uno spunto di riflessione nato quasi d’istinto, a seguito di un momento di relax a tu per tu con una registrazione casalinga.
L’home studio è ormai in tutte le case, persino in tasca per chi decide di esplorare le potenzialità degli smartphone. Così non è raro che i chitarristi si dilettino nel tentativo di ricreare rig e condizioni da studio per trovare i suoni “giusti”. Per me, una voce fuori dal coro è stato un breve clip registrato per un video sciocco pubblicato qualche tempo fa sulla pagina Facebook di Accordo.it.
Era l’assolo di “American Woman” nella versione di Lenny Kravitz. Ascolti l’originale e subito pensi a un humbucker ficcato in un valvolare in stile vintage tirato a manetta. Qualche accorgimento di sicuro, ma a grandi linee ti sembra di sentire forte e chiaro quel suono piacevolmente compresso, spugnosetto, con un leggero sapore di fuzz nella saturazione generale.
Un piccolo combo Fender dà grandi soddisfazioni in questo senso, ma d’istinto la scelta cade su una plexi. Eppure, se provi a ricrearlo nei comuni software di modeling, qualcosa non torna mai. Il suono ne viene fuori troppo patinato, con la giusta presenza sui medi ma smussato sugli acuti, fin troppo “prodotto”. Bello, ma non “lui”.
Ci ho provato con AmpliTube, con le simulazioni native di Garageband e con TH-U, e tutte le sfumature del rock erano dietro l’angolo, da Slash agli AC/DC, ma non Kravitz.
Serviva un suono più “scassone”, grezzo nell’attacco e con una saturazione che non sembra venire solo dall’amplificatore, ma forse anche dal banco a valle di cassa e microfono. Qualcosa di più “grattato” rispetto al tipico overdrive, insomma.
Se si ascolta il brano, in effetti, si nota quanto diversa sia la pasta dell’assolo rispetto al suono dell’accompagnamento, che invece sembra “respirare” in modo più scontato da una 4x12 standard per la categoria.
L’idea quindi è quella di sporcare dopo, senza un cono da chitarra che ammorbidisca il suono.
In ambiente virtuale è difficile ottenere una saturazione di questo tipo che sia anche piacevole all’orecchio: i preamplificatori della scheda audio Focusrite Scarlett non sono certo dei Neve, e tirare su il livello della traccia nella DAW per mandarla in clipping… brr…
Finché mi viene di fare una prova, senza contarci troppo: disattivo il simulatore di cassa. Ecco che la distorsione graffia, romba, arriva in faccia come un treno. Pure troppo.
Così sdoppio la traccia, da una parte la mia plexi iniziale con il suo bel cabinet. Dall’altra la testata virtuale ficcata dritta nel mixer virtuale. Un po’ di bilanciamento e… ci siamo.
Ora, il suono non è chiaramente quello di Lenny, ma l’idea di base ci si avvicina. C’è di mezzo anche il gusto personale e ci ho messo un bel po’ di “naso” in più.
Però ne esco soddisfatto, e sorpreso per il modo in cui quel suono ha preso forma. Vuoi vedere che quella “pernacchia” di una chitarra distorta senza cabinet, in realtà, ci è sempre piaciuto e neanche lo sapevamo?