Mi è capitato di suonare in diversi luoghi ultimamente.Per «diversi» non intendo «molti»... ma proprio diversi, differenti. Devo ammettere che talvolta è frustrante constatare come la stessa strumentazione sia in grado di produrre suoni significativamente diversi a seconda del luogo in cui si trova. Ci affanniamo incessantemente e in modo ossessivo per conseguire il suono perfetto, e poi questo si rivela assolutamente contestuale. Il suono perfetto è in altre parole la sua stessa attitudine di risultare adeguato in quel luogo, in quel momento.
In fondo, l'abbiamo sempre saputo.
L'ambiente, da attore esterno, gioca un ruolo attivo e costrittivo nei confronti del nostro suono. Lo condiziona e soprattutto lo determina. Eppure perché continuiamo ad inseguire la perfezione (che poi altro non è che l'evoluzione più alta dell'appagamento) attraverso un processo cognitivo che ci spinge ad esaminare ogni singolo elemento della catena, quando siamo coscienti della presenza di agenti esterni che non siamo in grado di controllare?
Perché siamo convinti che il nostro intervento razionale possa essere tanto mirato da limitare tali costrizioni, o perché l'appagamento della perfezione si nasconde in realtà dietro la sua ricerca?
La vita, specie quella del chitarrista, è piena di contraddizioni e castighi.
A volte restiamo affascinati persino dalla scoperta dell'acqua calda.