Dimenticando la stampa, i giornali e la critica - lasciandola a coloro che possano e sappiano aver la presunzione di giudicare, davanti a un lavoro come "The Endless River" bisogna limitarsi ad ascoltare in silenzio.
Ascoltare quella copertina che tanto perplesso tra fiducia e paura mi aveva lasciato circa un mese fa, con quel barcaiolo che tra scontate nuvole ci portava a respirare l'indefinita atmosfera moderna di floydiana e thorghensoniana memoria, ormai messa sul comodino da vent’anni.
Scontate le nuvole, come scontata la band che le attraversa, non ci sorprende più nulla, forse perché non abbiamo il coraggio di fermarci e riflettere sulla forma delle cose. The Endless River è essenzialmente questo, un'apparente scontata riflessione sulla forma di nuvole che mutano aspetto e richiamano alla nostra memoria immagini evanescenti e indefinite di troppo breve durata per essere totalmente percepite, nel loro continuo dissolversi di forma in forma. Una mano poi un prisma, poi un maiale, un diamante pazzo.Ripercorrere quasi 50 anni in 50 minuti, così è se vi pare. O più semplicemente nuvole, sta a noi decidere se vedere e sentire o restare ciechi e sordi.
Ascoltare in silenzio il silenzio. Si perché The Endless River trova la sua forza nel coraggio di restare in silenzio, di lasciare spazio alla riflessione, ma soprattutto alla sensazione. Contraddice il brusio costante che batte il ritmo della nostra esistenza, se ne allontana, si allontana dalla musica, dalla sua concezione moderna, dall’essere frammento a misura di App, si allontana dalla storia della band riappropriandosene nello stesso momento.
Il coraggio di essere se stessi negando se stessi, ritrovare il concetto di unità della musica concepita come fluire di vibrazioni dall’interno. Viene difficile infatti dividere l’album in canzoni e frammenti, quasi impossibile, come sarebbe impossibile dividere con esattezza un fiume infinito dal suo corso.
Siamo lontani dalla psichedelica assoluta del crazy diamond, lontani dal lirismo profondo e tagliente di Mr Waters, come dall’incontenibile desiderio di autocelebrazione di Gilmour and Friends degli anni ottanta e novanta.
Fluido, equilibrato e misurato il sapore di un disco del genere, per la prima volta dopo molto tempo la musica appare un unicum indivisibile, non si percepisce alcun desiderio di ambizione del singolo sulla band. Quattro lati, quattro grandi suites, come una volta, ma diverse nel formato. Se in Animals o Meddle o Wish You Were Here, ci avevano abituati a lunghe sessioni strumentali con al loro interno la presenza di più episodi, qui Gilmour e soci, hanno diviso i vari momenti di ogni singola suite dando una durata e un nome preciso a questi.
Tuttavia, non è da commettere l’errore di considerare i vari frammenti come canzoni o singoli da analizzare nel dettaglio svincolati dal loro contesto. Errore che la critica ha commesso, giudicando singolarmente questa o quella traccia come qualcosa di indefinito, incompiuto e senza senso. Il che, visto da questa prospettiva, appare assolutamente normale, come sarebbe normale e non pretenzioso giudicare un’opera unica come la Commedia di Dante, semplicemente analizzandone frammenti sparsi in modo random e giudicandoli nonsense, pretenziosa è quindi l’opera della critica che si permette di smembrare l’unità in brandelli qui e li deposti.
Tornando all’album e alle sensazioni, non si può dire che sia un disco semplice, è necessario un ascolto nel luogo, nei tempi e con i supporti giusti, forse dopo aver fatto girare il disco per tre o quattro volte si può capire di che forma siano le nuvole.
Dopo un inizio tipicamente Floydiano, con frasi dei membri della band, quasi una dichiarazione di intenti a esprimere le cose non dette, la somma di tutte le parti, gridando e sostenendo qualcosa di non ben definitivo, ci immergiamo davvero in quel fiume sospeso tra le nubi. Non andrò oltre nella descrizione delle suite, la stampa ha già fatto molto e chi realmente vuole saperlo, vada ad ascoltare.
Mi vorrei focalizzare sui concetti, su quel gioco detto e non detto. Il dialogo ha permesso la comunicazione di idee, consente agli esseri umani di lavorare insieme per costruire l’impossibile. I più grandi successi del genere umano sono avvenuti parlando. Le nostre più grandi speranze potrebbero diventare realtà in futuro. Con la tecnologia a nostra disposizione, le possibilità sono senza limiti. Tutto quello che dobbiamo fare è essere sicuri che si continui a parlare, sono queste le parole di Stephen Hawking che guidano anche l’ascoltatore più ottuso alla percezione del significato profondo, o uno dei molti che un’opera del genere vuole dare.
La comunicazione: etimologicamente mettere in comune, dare la possibilità di condividere un’idea, su tutte quella con la parola. La differenza tra noi e una scimmia sta nel fatto che possiamo parlare anche dell’inverosimile e in sua assenza, questo è il progresso. Eppure il disco sembra contraddire questo principio stesso, il silenzio è Louther than Words. Hawking parla da un computer, i Pink Floyd dal silenzio, il silenzio di tracce lasciate in studio per anni, il silenzio tombale lasciato dalla morte di Rick, il silenzio di chi non vuole unirsi al coro delle voci vacue che ci circonda dicendo molto più di quanto non ci si aspetti, il silenzio che sia scolta tra il lato oscuro della luna e le porte del cancello del pifferaio. E allora, stando anche noi in silenzio, ascoltiamo.
Rick sorride felice dal cielo e saluta con i suoi ultimi mortal remains. David e Nick si ricongiungono a lui per l’ultima volta. Parlare di "The Endless River", non risulta un’impresa semplice, non è mai facile parlare. Esprimere pareri, definizioni e sentenze su una delle band più importanti della modernità.
Parlo di modernità non a caso, perché i Pink Floyd rappresentano nella loro essenza il concetto stesso di moderno, la costante paranoia di inseguire qualcosa di indefinito, sfiorarla più volte e mai toccarla con mano. Sentirsi frustrati nella propria mediocre immensità, tanto da interrogarsi sulla natura dei propri sentimenti e la percezione delle proprie sensazioni, verso se stessi e verso un mondo, tanto vicino, tanto nascosto tra i mattoni di un folle muro. It's only rock n' roll, ma non è facile parlarne, non in questi anni in cui le parole sono spesso poco misurate, tutti sono ottimi shredders che mescolano mille note al secondo, strutture prive di un reale peso, in cui la tanto desiderata parola da un chilo è nascosta sotto chili di parole, sommersa e dimenticata tra le urla della costante lotta tra noi e loro.
Vengono perforate, i cori si innalzano al cielo come una grande preghiera alla musica, e al coraggio di essere pesantemente se stessi ancora oggi, nel mondo delle farse e delle bugie. Riprendere tracce dopo molto tempo, dopo averle fatte maturare è tipico della band. Animals era stato già concepito nel 74’, dark side in larga parte tra il '68 e il '70, questa band ha le tendenza ad aspettare a parlare, a dire qualcosa e farlo nel momento giusto e questo fiume ci bagna proprio quando ne avevamo bisogno.
Non c’ è più il muro, né il prisma né il maiale che vola, ormai siamo noi a volare, dopo aver litigato e combattuto. Più forte delle parole, quello che facciamo, che abbiamo fatto e faremo, è più forte delle parole, nel silenzio dolce e malinconico di chi si dissolve nell’acqua, lasciando anche nel più torpido dei fiumi il sapore dolciastro, a tratti incompiuto, della bellezza ormai lontana, sommersa chissà dove di aver avuto una storia da raccontare.
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