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Leo Pari,
Leo Pari, "Spazio". Musica per quarantenni?
di [user #17404] - pubblicato il

Ci addentriamo tra i solchi e la produzione di Spazio, ultimo disco del cantautore romano Leo Pari. Un disco che, seppur zeppo di synth, atmosfere, arrangiamenti e suoni spudoratamente anni ’80 è la cosa più fresca e originale sentita di recente. Un album intelligente e pungente. Una boccata d’aria fresca nell’asfittico scenario della musica italiana.

In questo disco, c’è un pezzo “Arnesi” nel quale canti: “Con la chitarra posso rovinare le tue canzoni preferite”...
Sì, descrivo un momento d’intimità divertente nel quale una ragazzo e una ragazza si mettono,  da soli, a cantare qualche canzone famosa accompagnandosi alla chitarra. E la suonano senza sapere bene le parole, gli accordi. Così, per spasso, sporcano qualche classico.
Usata in questo modo, la chitarra è uno degli arnesi con cui si può mantenere vivo un rapporto d’amore.
 
Parafrasando questa frase, ho pensato potesse essere anche una chiave di lettura del tuo disco, tutto basato sui synth. Come se, alla vigilia della produzione e con le canzoni scritte sotto al naso, avessi percepito che un arrangiamento tradizionale, basato sulle chitarre, avrebbe potuto non valorizzarle.
No, sin dall’inizio c’era la volontà di fare un disco a base di sintetizzatori, arpeggiatori e che suonasse in questa maniera. 
Ecco, semmai l’idea di usare i sintetizzatori mi ha spinto a escludere, tra le canzoni scritte, quelle che avevano un impianto più simile ai miei lavori precedenti con un’impronta più folk.
Ma le canzoni del disco sono state scritte in maniera tradizionale alla chitarra o al pianoforte.
 
Leo Pari, "Spazio". Musica per quarantenni?
 
E tra quelli che hai selezionato cosa te li faceva sentire funzionali al sound che avevi in testa?
Le canzoni con giri di accordi semplici e armonie non troppo complicate erano quelle che avrebbero funzionato meglio. Ci hanno letteralmente instradato verso questo suono.
A livello di scrittura,  ho anche privilegiato scelte di accordi più british che avrebbero diversificato il suono del disco rispetto alla tradizione folk.
 
Secondo te i brani di questo disco avrebbero funzionato in una veste più chitarristica?
Certo, le canzoni di questo disco avrebbero potuto essere realizzate anche in maniera piuttosto tradizionale. Anche perché poi, restano pezzi tradizionali con il basso e la batteria veri. Hanno una sembianza elettronica ma sono suonati. Se tu in una canzone zeppa di chitarre vai a sostituire quest’ultime con synth e tastiere certo, cambia l’atmosfera, cambia il vestito ma l'ambiente della canzone resta quello.
 
Già, basso e batterie sono suonati…
Con tutti questi synth e arrangiamenti anni ’80, se avessi usato le batterie elettroniche avrei finito per fare un album caricatura di “Cuore” di Venditti o di Vasco di “C’è chi dice No”. 
 
Però su "Arnesi" c’è un basso synth. Tra l’altro è il giro di basso più forte dell’album.
No è un basso di cui abbiamo sdoppiato il segnale. Una linea finiva nell’ampli e quindi era microfonata in maniera standard. L’altra era ripresa in diretta passando per un overdrive e un’autowha.
 
I suoni e gli arrangiamenti del disco sono spudoratamente anni’80 eppure tutto suona, in qualche modo, modernissimo. Come hai fatto?
Gran parte del merito va al suono della batteria. Sante Rutigliano che ha prodotto il disco, è stato molto attento a come avrebbero dovuto suonare le batterie vere.
Le batterie sono registrate in maniera particolare, coi rullanti spesso anche abbastanza bassi ma che risultano tanto nel mix.
 
 
Che accorgimenti ha adottato nelle riprese delle batteria?
Su tutto il suono dei rullanti: se li vai ad ascoltare non sono quei rullantoni, quei tipici panettoni anni ’80 intrisi di riverbero che utilizzavano nei dischi di allora. Sono sempre abbastanza asciutti, abbastanza saturi. Questo ha portato una certa modernità, un che di americano nella produzione. Ha portato il suono anche verso un mondo un po’ lo-fi alla Kurt Vile.
 
Sante, tra l’altro, è un chitarrista…
Infatti. Senz’altro mettere un chitarrista, che non suona nemmeno le tastiere, a produrre un disco di synth tutti suonati da me, a maneggiare quello che non è il suo pane quotidiano ha dato una certa originalità e freschezza al suono.
 
A proposito di chitarre; ce ne sono di deliziose in "Ave Maria"
Le chitarre di "Ave Maria" sono frutto di Emiliano Bonafede, chitarrista di ruolo della mia band. E’ un musicista di estrazione molto wave, che viene dagli Flangar non Flectar , una band degli anni ’90. Io lo chiamo un piccolo The Edge: non è un chitarrista che bada alla scala pentatonica, alla sciccheria blues. E un lavoratore di sound. Tanto che la sua chitarra con quei delay, quei tappetoni che crea, si amalgama al suono di synth così tanto da diventare difficile da individuare.
 
Però gli accordoni sgranati nell’inciso sono parecchio rock…
Quelli sono rubacchiati a "Born To Run" di Bruce Springsteen!
 
Leo Pari, "Spazio". Musica per quarantenni?
 
Su Spazio la commistione tra  synth debordanti e il lavoro discreto ma solido e costante delle chitarre funziona benissimo. Chi ti ha ispirato nella gestione di suoni di synth e chitarre?
Molte cose. Tra l’altro, cose più che degli anni ’80,  riconducibili piuttosto alla fine degli anni ’70, semmai primissimi ’80: dai Supertramp ad Alan Parson Project; ma più di tutto il Battisti . Una donna per amico o Una giornata uggiosa, dischi che fanno parte del mio imprinting, dischi che porterei su Marte.
In quel disco la voce protagonista è quella dei synth e le chitarre si limitano a dei lavori di stoppato, di rifinitura. Per esempio, proprio su “Una giornata uggiosa” la chitarra fa un lavoro bellissimo sul ritornello ma il disegno ritmico melodico è riconducibile al lavoro di un synth.
 
Un altro elemento che aiuta a scongiurare l’effetto parodia anni ’80 sono le voci: ci sento pochissimo riverbero, pochissimi ambienti…
Si, le voci sono state tenute molto asciutte. Inoltre, sono sempre doppiate e anche quello porta un certo effetto di modernità. Ma anche i controcanti sono importanti. Spesso ho utilizzato dei controcanti stereo, con delle armonizzazioni che danno un effetto quasi da vocoder.
 
 Una produzione davvero ragionata in tutti i dettagli...
Sì, io cerco di dare nel mio lavoro sempre un grande peso all’aspetto della produzione.
Ma fino a un certo punto. Perché fare un disco è comunque partire per un viaggio. Non tutto può essere prestabilito a tavolino. Sai da dove parti ma non sai dove vai a finire. Il disco si forma anche mentre ci stai lavorando.
Di sicuro, siamo riusciti a fare questa commistione tra suono italiano anni ’80, tra pezzo da colonna sonora di “Vacanze di Natale” e una produzione più internazionale, più moderna…
 
Se scomodi “Vacanze di Natale” allora ti dico che sulle strofe di “Non ci ruberanno mai” ci sento un po’ di Righeira…
Certo: grandissima band, grandissima!
 
Ho letto che “Cantautori” è un brano che ti ha aiutato a fare pace con l’idea di appartenere a questa categoria. Non ti sentivi tale?
Storicamente, per cantautore in Italia si tende ad associare qualcuno che abbia in mano una chitarra, probabilmente classica - nemmeno acustica - una bella barba e un fiasco di vino. E allora è chiaro che un’immagine del genere, non poteva che andarmi stretta.
 
 
Eppure chi scrive, suona e produce la sua musica è di fatto un cantautore. Definirsi solo un musicista non è riduttivo?
Hai colto nel segno. A me pesava non potermi definire cantautore ma era una maniera per ribadire una certa lontananza da quella tradizione musicale italiana. La produzione delle canzoni, l’approccio alle registrazioni, la cura negli arrangiamenti, insomma, tutti gli aspetti discussi finora, per me sono fondamentali. E sono invece, aspetti che forse mancano, sono stati trascurati dai cantautori italiani degli anni ’70.
Io credo che un Guccini o un De Andrè se ne siano ampiamente sbattuti di come doveva essere il suono di un loro disco. A loro interessava la canzone. Più ancora il testo; nemmeno tanto il giro di accordi che, varia e non varia, alla fine era sempre là.
 
Però ci sono anche dischi di cantautori italiani di quel periodo che suonano molto prodotti...
Sì, perché con l’avvento produttivo della RCA si è iniziato a curare di più l’aspetto produttivo. Si facevano grandi produzioni, con grandi direttori di orchestra, penso a Ennio Morricone. Che però davano degli arrangiamenti super classici alle canzoni. Penso al RCA di Baglioni, del primo Venditti a Rimmel di De Gregori. In quel periodo le cose suonavano tutte un po’ in quel modo…
 
E Lucio Battisti?
Secondo me chi fece la differenza fu proprio lui, perché la forza di Battisti era propria la cura delle produzioni. Battisti faceva dei dischi che si andava a produrre fuori dall’Italia. Del resto, era sempre in testa alle classifiche si poteva permettere di fare il mezzo indie, fuori dagli schemi. Battisti ha prodotto dischi con Jeff Wesley (che ha fatto dei lavori nel mio studio) ed è andato a registrare dischi in America. Ha sempre avuto un sound internazionale, al passo coi tempi. A volte li ha persino anticipati. Penso ad "Ancora Tu" del 1975 che intuiva certe sonorità disco prima che quel filone esplodesse.
 
Leo Pari, "Spazio". Musica per quarantenni?
 
Leo Pari con Jeff Wesley
 
Nel tuo disco racconti  i quarantenni di oggi tra luci, ombre e tante sfaccettature. C’è quello perfettamente realizzato, con una compagna che ricorda con dolce nostalgia i suoi 18 anni. Ma c’è anche quello tormentato e irrisolto più di un adolescente di “Ave Maria”…
E magari è pure la stessa persona: che un giorno si sente felice, sereno e il giorno dopo fa riflessioni sulla fine del mondo. Tratteggio delle persone, dei quarantenni un po’ schizofrenici. Perché ho la sensazione di essere una generazione in mezzo: quelli appena più grandi di noi hanno già fatto delle famiglie, quelli un po’ più giovani ancora non ci pensano. Noi siamo veramente una generazione tormentata, con tanta gente che non sa che fare. C’è un larghissimo utilizzo di stupefacenti e si tende ancora a vivere come ragazzi. Molta gente della mia età tende ancora a fare serata, a fare le sei di mattina e poi andare a lavorare. Una generazione di scapestrati, che va in vacanza in Thailandia….
 
Questo quarantenne ne “I Piccoli segreti degli uomini” grida: “Scopo con un’altra ma sto pensando ancora a te”. E’ una grande, ultima e disperata dichiarazione d’amore o un saggio di mediocrità?
Questo e quello: è certo una dichiarazione d'amore perché ammette di fallire nel tentativo di rimpiazzare una persona amata, di dimenticarla. Ma anche di mediocrità perché lui è talmente ipocrita che, pur di tenersi vicina questa piccola compagnia che ha trovato, arriva a dirle di amarla. Tant’è che, nel secondo inciso, canto “Sono i miseri segreti degli uomini…
 
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