di LaPudva [user #33493] - pubblicato il 03 giugno 2017 ore 08:30
Mi sarebbe piaciuto molto parlare serenamente di Chris Cornell, magari con un tradizionale articolo monografico a uso dei nostalgici, che leggendolo avrebbero potuto ripercorrere un bel tratto della loro memory lane, ma soprattutto dei più giovani, che spesso scoprono universi artistici nel triste fermento celebrativo che segue la loro implosione.
Mi sarebbe piaciuto, dicevo, ma a un paio di settimane dalla sua morte tragica e inaspettata lo sgomento che attanaglia migliaia di fan in tutto il mondo è anche il mio. È difficile capire cosa possa condurre un artista cinquantaduenne di fama mondiale in piena attività (e con una carriera più che trentennale), stimato trasversalmente, scampato all’abisso della depressione, delle droghe e dell’alcol attraverso la riabilitazione, l’incontro con una donna che gli ha cambiato la vita (Vicky Karayiannis) e la paternità, a togliersi la vita in una camera d’albergo, secondo il più triste cliché del rock. Ma, alla fine, i perché e le modalità contano davvero poco, di fronte all’abisso che deve aver spinto Cornell nella stessa direzione di altre figure del suo lignaggio.
Sono una dei tantissimi che nella propria adolescenza hanno subito il fascino del grunge, in particolare nei primissimi anni ’90. In casa mia era entrato alla fine del ’91 con Nevermind dei Nirvana e in breve tempo lì si era radicato. Non serve dire a chi legge che in era pre-internet ogni bravo musicofilo aveva una rete di pusher pronti ad attivarsi: Pearl Jam, Alice In Chains, Mudhoney, Temple of the Dog erano soltanto alcuni dei gruppi che ho incrociato in quel periodo e che rispondevano in modo soddisfacente, nella loro diversità, alle mie inquietudini adolescenziali. Porca miseria. Com’era possibile che mi capissero meglio a Seattle che a La Spezia? Devo essere onesta, quella passione non si è tramutata in una relazione seria, eccezione fatta per due band: Nirvana e Soundgarden. I primi, con la loro primitiva carica punk rock, melodie dalla presa immediata e testi pazzeschi avevano indotto in me una certa dipendenza. I secondi, invece, avevano Chris Cornell. Senza nulla togliere ai validissimi compagni di band e al loro blend di punk, hard rock e heavy metal, quando li ho sentiti per la prima volta (con “Slaves & Bulldozers”, brano del loro terzo album, Badmotorfinger, inserita in una selezione fatta per me da un amico) sono rimasta impressionata dalla voce superumana e dall’interpretazione spettacolare del frontman. Da allora lo stupore per quella che ritengo una delle voci più incredibili della sua generazione non è svanito.
La notizia della scomparsa di Chris Cornell mi ha commosso moltissimo. Al di là dell’affetto che mi lega a un eroe della mia adolescenza che mi ha accompagnata fino all’età adulta, a mio avviso la perdita a livello artistico è incommensurabile e, a detta di chi lo ha conosciuto bene, lo è anche a livello umano. Nelle ore immediatamente successive alla diramazione della notizia il mio pensiero è corso a un amico in particolare, una di quelle persone di poche parole ma che, quando aprono bocca, hanno davvero cose notevoli da dire. E nel repertorio della persona in questione, con decenni di attività alle spalle come promoter, produttore e manager, naturalmente gli aneddoti pazzeschi non mancano.
Ho conosciuto Paolo Bedini in Liguria verso la fine degli anni ’90, mentre stava producendo il disco di alcuni conoscenti. Ricordo due o tre lunghe chiacchierate di musica e di vita davvero interessanti in altrettanti bar di provincia, a tarda sera. Negli anni ci siamo persi di vista per poi ritrovarci telefonicamente e telematicamente in alcune occasioni. Mi ha colpito davvero tanto che il giorno successivo alla morte di Cornell mi abbia contattata per parlarne, perché proprio a lui e ai suoi racconti stavo pensando, in particolare al tour che ha organizzato in Italia per gli allora emergenti Soundgarden, nel lontano 1989. Mi ha fatto piacere che abbia voluto ricordare quel periodo con me e a mia volta voglio condividerlo con voi.
«Nel 1989 stavo terminando la mia 'carriera' di promoter e agente per gruppi stranieri. In seguito avrei continuato con band italiane (management, discografia, visto gente, fatto cose...). Ero un po' stanchino. Avevo corso per anni, prima come promoter locale a Sarzana alla fine degli anni ’70, poi a Firenze, Genova, Roma. Dai piccoli concerti in teatro agli stadi pieni. Nei primi anni ottanta diventai agente italiano di piccole band inglesi e statunitensi (perché i nomi importanti avevano già i loro agenti). E poi Nico, The Smiths, David Sylvian, Nick Cave, Pogues, Joe Strummer, Wailers, Fela Kuti, Housemartin, Johnny Rotten, Husker Du, Run Dmc, Public Enemy, ecc. Una mia atavica tendenza al “rimpicciolimento” (ora si direbbe "decrescita felice"). Facevo cose che mi interessavano e mi appassionavano: booking, viaggi in furgone, concerti, cene e chiacchiere con gente che arrivava a suonare in Italia da ogni parte del mondo.
Nel 1989 ero diventato una agenzia cosiddetta importante e non avevo più tempo per andare in tour. Stavo nel mio ufficio di Roma e incontravo gli artisti solo se c'era una data nella capitale. Come dicono gli allenatori della nazionale "un po' mi mancava il lavoro sul campo". Dopo molti anni mi sono ricordato di aver organizzato tour con Soul Asylum e Mudhoney che avevo dimenticato semplicemente perché non li avevo mai visti o frequentati. Lavoravo con le più importanti agenzie inglesi ma al tempo stesso cercavo di mantenere un contatto con i nuovi gruppi emergenti.
Avevo aderito a una associazione di agenti e promoter europei chiamata Network. L’intento era di circuitare le band nazionali facendo scambi con quelle di altri Paesi oltre a promuovere tour di artisti statunitensi che non erano stati presi in considerazione dalle consolidate agenzie inglesi. C’erano un paio di gruppi che non sembravano malaccio, almeno si diceva così dei Nirvana e dei Soundgarden. I Soundgarden furono molto contenti di fare ben otto date (5-14 giugno 1989) in Italia con la AZ, la mia agenzia. Così, almeno, mi disse Matt Cameron che aveva sentito parlare di me da un gruppo che avevo organizzato precedentemente.
Per me che ero abituato alle richieste a volte davvero esorbitanti delle agenzie inglesi fu un tour molto riposante. Un contrattino semplice ed essenziale, poche richieste, un cachet di 900 dollari a data con backline e trasporto a carico loro. Dovemmo cambiare il luogo della data di Pisa e la spostammo all'esterno dello storico Macchia Nera, uno dei centri sociali più scalcinati d'Italia. Mi stupì molto il comportamento della band perché usualmente avevo a che fare con due categorie di artisti. Gli inglesi erano molto pretenziosi sul versante tecnico e avevano una label che organizzava loro il giro promozionale di routine. Le band americane invece di solito “attaccavano la spina e suonavano” in qualsiasi condizione, senza molte spinte discografiche o partecipazioni televisive a meno che non procurassimo noi qualche occasione in tal senso. I Soundgarden appartenevano a pieno titolo a questa seconda categoria. Al tempo stesso, direttamente tramite la loro etichetta statunitense, avevano organizzato una serie di piccole interviste in ogni città toccata dal tour, interviste che affrontavano con grande professionalità. Questo mi sembrò un metodo di autopromozione molto efficace durante il giro. Cenai con loro a Roma prima del concerto e parlai quasi solo con Chris Cornell e Matt Cameron. Ci scambiammo i recapiti per il futuro e Matt Cameron volle mettere tra parentesi vicino al suo nome quello della band perché diceva che generalmente i promoter si dimenticavano di lui se non associato al nome della band. Dopo il loro concerto decisi che avevo ancora voglia di andare in tour e così salii in furgone con la band. Anche se con altri artisti ho avuto rapporti anche più intensi, ricordo quei pochi giorni insieme ai Soundgarden con molto piacere. Durante il tour erano rimasti colpiti da alcuni manifesti di Holer Togni e mi chiesero se potevo procurarglieli e spedirglieli a casa negli Usa. Addirittura il loro tour manager voleva contattare Holer Togni per fondare un fan club a Seattle. Dopo la data di Udine mi accompagnarono alla stazione di Bologna. Io presi il treno per Roma e loro continuarono il tour. Non li vidi più ma poi ho sentito parlare tanto di loro».
Paolo mi ha inviato alcune foto di quel tour, insieme a una foto promozionale, l’itinerario del tour su carta intestata della AZ Music, la scheda tecnica della band e un foglio con gli indirizzi di casa di Chris Cornell e di Matt Cameron, in caso Paolo avesse intenzione di passare da Seattle.
Mi ha emozionato ricordare quel periodo, quando tutto era ancora da scrivere o quasi, per Chris Cornell e per me.