Tradizionalmente allergico alle commemorazioni dei defunti, oggi mi sono limitato a riascoltare un po' della sua musica, che mi accompagna fin dall'adolescenza, chiedendomi per tutto il giorno quale fosse il pezzo più rappresentativo della sua storia artistica. Impresa ardua, di capolavori ne ha scritti a dozzine, toccando innumerevoli temi, conciliando parole e immagini apparentemente inconciliabili, come solo lui sapeva fare.
Ascolta e ascolta, ho scelto "L'ora di libertà", brano finale da "Storia di un impiegato", il suo album più esplicitamente politico, scritto con Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani. E' un vero romanzo di formazione in musica, in cui si racconta l'evoluzione di un uomo che da piccolo borghese conformista si trasforma in rivoluzionario. La sua guerra per la libertà lo porta in carcere, dove scopre il valore dell'impegno collettivo.
Il brano riassume l'intero album: comincia con un pensiero egoista ("Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va, perciò ho deciso di rininciare alla mia ora di libertà"), ma dopo una profonda riflessione autocritica, che è anche critica sociale ("ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane, ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame"), si chiude con un pensiero della coscienza collettiva. Nell'ultima strofa il protagonista è unito ai suoi compagni di sofferenza per "incarcerare" le guardie, impedendo loro di uscire in cortile ("Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va, e abbiamo deciso di imprigionarli durante l'ora di libertà").
Fabrizio De André può aver detto cose non condivisibili, ma non ha mai detto cose banali. Il testo di questa canzone è secondo me uno dei più profondi, anche perché riassume in due versi il suo pensiero sulla vita. Un artista immenso.
|