di aPhoenix90 [user #22026] - pubblicato il 26 ottobre 2011 ore 17:30
Una delle tante novità che hanno caratterizzato l'epoca contemporanea, è rappresentata dall'impennata demografica.
Rivoluzione industriale, aumento del tenore di vita, diminuzione del tasso di mortalità, aumento del tasso di fertilità, ecc. tutti fattori che sicuramente hanno incentivato in modo considerevole l'aumento della popolazione mondiale.
È infatti un dato ovvio quello che rivela che la crescita demografica si è moltiplicata esponenzialmente negli ultimi due secoli: se è vero che nel 1° anno D.C. la popolazione mondiale stimata era di 200 milioni e per tagliare il traguardo del 1° miliardo bisognerà aspettare fino al 1800, è curioso osservare il dato che riporta il miliardo successivo dopo solo 130 anni (1930). Mentre nel 1960 (appena trent'anni dopo, quindi) era già stata raggiunta quota 3 miliardi. Addirittura siamo passati da 6 miliardi (2006) a 7 (2011) in appena cinque anni. È chiaro che la parabola diventa sempre più ripida.
Così, mentre Accordo ha appena brindato in onore dell'accordiano #30.000, il mondo si presta ad accogliere entro fine mese l'essere umano #7.000.000.000. Con non pochi problemi, tra l'altro.
Le risorse basteranno per tutti? Non saremo troppi? Siamo destinati ad essere sempre di più?
Il dibattito torna attuale. E come sempre contrappone due squadre: i catastrofisti da una parte, e gli inguaribili ottimisti dall'altra.
I primi annunciano già la catastrofe ambientale. Le risorse ambientali non basteranno a sfamare sette miliardi di bocche, senza contare il problema dei consumi di massa, dell'inquinamento e dello smaltimento dei rifiuti. L'economia sarà sempre più soggetta a cedimenti strutturali (è vecchia la teoria secondo la quale l'eccessiva crescita della popolazione avrebbe accorciato la vita al progresso economico) e la distribuzione della ricchezza sempre più squilibrata. Una posizione di questo tipo però, evidenzia sostanzialmente un interrogativo di costi: «Quale sarà il costo di mantenere un pianeta in cui ogni individuo possa condurre una vita felice? Quanto costerà preservare le risorse globali anche per le future generazioni? Esiste davvero uno "sviluppo sostenibile", in un mondo così affollato?». Probabilmente sì, dicono. Basta avere il fegato di cambiare.
La squadra antagonista, invece, conduce un'analisi di altra natura. Il problema non sarebbe rappresentato dal fatto che siamo troppi (citando il quotidiano: «né la subdola affermazione che questa fobia nasconde, cioè "sono troppi questi poveri!"»), quanto piuttosto dalla nostra distribuzione. L'allarme proviene da un Europa sempre più vecchia e da una Cina sempre più maschile (distribuzione anagrafica) e dalla distribuzione sul luogo in cui gli esseri umani si stabiliranno. Le città sempre più grandi e sempre più densamente abitate (comincia a trovare spazio il termine "supercittà") mettono in luce problemi legati allo spazio umano (di quanto spazio necessita un essere umano per poter vivere sereno?), all'accessibilità dei servizi (periferie sempre più lontane, e di difficile controllo), campagne sempre più piccole. Il punto cruciale sarà dunque quel periodo di stabilizzazione, superato il quale l'intervallo tra un miliardo e l'altro riprenderà a salire (l'ottavo miliardo è stimato per il 2024). Tuttavia, questa posizione si dice fiduciosa in quanto i lavori rivolti alle nuove fonti energetiche sono molto ben avviati, e sottolinea (forse piuttosto utopicamente) che per scampare ai grossi pericoli basterebbe regolare le emissioni con raziocinio, evitare di lasciarsi andare all'inerzia, cercare di attenuare le crisi economiche ed evitare le guerre. Benvenuti in paradiso, insomma.
E noi, nel nostro piccolo, come ci muoviamo?
Quando si leggono questo tipo di notizie, è sempre molto facile schierarsi in uno dei due paradigmi dominanti. Un po' come se la cosa ci riguardasse superficialmente, ma se proprio dovessimo prendere posizione siamo pronti a ripararci sotto uno dei due ombrelli.
In realtà la questione ci riguarda molto da vicino. Anzi, è uno dei pochissimi casi in cui non possiamo puntare il dito sugli "altri" qualora dovessero esserci davvero dei problemi... perché il problema siamo noi. La popolazione mondiale (noi) è pronta in prima persona ad accogliere altra gente? Come gestiamo il nostro spazio? Lo condividiamo o lo concepiamo come una guerra all'accaparramento dell'ultimo centimetro rimasto libero? Siamo disposti a rinunciare a qualcosa per il bene di tutti?
Le idee delle fonti rinnovabili, della riduzione dei consumi, del rispetto dell'ambiente sono ormai ampiamente diffuse, mentre l'idea di condivisione è un concetto ancora troppo legato al mondo virtuale. Questo mi porta a pensare che ad aver bisogno di cambiamenti forse non sono le politiche sociali/ambientali (quelle in fondo vanno e vengono a seconda di chi piazziamo sulla poltrona), ma la nostra concezione del luogo in cui abitiamo.
L'articolo conclude con una bella frase, un qualcosa del tipo: «I problemi, direbbe la saggia Agatha Christie, verrebbero dalla natura umana, non dalla sua diffusione».
In fondo è vero. Basterebbe che prendessimo coscienza delle necessità e del rispetto collettivo e pensassimo all'incremento di popolazione come un'opportunità, e non come una minaccia.