“Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
ma son mille papaveri rossi”
Fabrizio de Andrè, una vita passata a scrivere canzoni vere, su persone vere, fatti veri, ancora simbolo per le generazioni di vecchi e giovani.
Vissuto nel periodo del secondo dopoguerra, un periodo di conflitti politici, rivolgeva il suo sguardo sarcastico non solo a questi, ma anche alla guerra, alla prostituzione, a problemi sociali che sono all’ordine del giorno perfino oggi, quasi 9 anni dopo la sua morte, causata da un tumore al polmone.
Un cantautore che ha saputo dare, nelle sue canzoni, quello che pochi danno oggi, delle idee, delle lezioni di vita, influenzando anche molti artisti dei giorni nostri, come Carmen Consoli o Dolcenera.
La prima, in un’intervista lasciata a XL, ha dichiarato che: “Se de Andrè fosse nato in America, sarebbe stato Bob Dylan”. Dolcenera invece, deve il suo nome proprio a una canzone di de Andrè.
Ho ritenuto opportuno iniziare con la citazione della “Guerra di Piero”, probabilmente uno dei suoi pezzi più famosi, storia di un soldato che, colto da un momento di pietà verso un suo avversario, viene ammazzato, ucciso dalla sua misericordia.
La frase da me riportata ricorre all’inizio e alla fine del pezzo, come nelle poesie con struttura circolare, perché è questo che sono i suoi pezzi, poesie; e il significato è semplice, chi saluterà quel soldato, morto per la sua misericordia, onorandone il cadavere? Non i fiori degli amici sulla sua tomba, ma i papaveri, nutrendosi di lui per crescere.
È indubbia nei suoi testi anche la presenza cristiana, pur se con una personale reinterpretazione di fede, si veda ad esempio “Il pescatore”, già dal titolo evidente riferimento biblico al Cristo pescatore di uomini.
“E chiese al vecchio dammi il pane
ho poco tempo e troppa fame
e chiese al vecchio dammi il vino
ho sete e sono un assassino.
Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno
non si guardò neppure intorno
ma versò il vino e spezzò il pane
per chi diceva ho sete e ho fame.”
Una lezione di perdono, di uguaglianza, di fratellanza, poiché nei momenti di difficoltà siamo tutti uguali.
O ancora, in “Un blasfemo”, una trasposizione del mito biblico della mela, che ha portato alla cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, e che qui si vede nel fatto che ormai gli uomini si fanno del male tra loro, incuranti di ciò che è stato loro donato, e che “non hanno più padroni”
Ma de Andrè non era solo questo, non solo politica e religione, anche problemi comuni.
In “Un malato di cuore” ad esempio, dove parla di un bambino mai uguale agli altri, incapacitato a giocare con loro, ma che comunque sapeva amare e riesce a conoscere l’amore, perché pur se malfunzionante il suo cuore poteva battere per una donna.
O in “Un chimico”, dove spiega come nessuna razionalità, nessuno studio può interpretare e comprendere la magia dell’amore che lega due persone.
Un autore adatto a diversi livelli di lettura e interpretazione, fatto per essere letto e compreso dai più giovani e per essere apprezzato da chi ha qualche primavera in più, a patto di essere dotati di una buona cultura storica, soprattutto del periodo del secondo dopoguerra.
Chi era de Andrè allora?
A voi la risposta.