Nel maggio 2023 ne è nato uno presso il Bear River State Park, un parco di Evanston, nello stato del Wyoming. Musicalmente parlando, però, tutti sanno che il bisonte bianco è uno soltanto e risponde al nome di Jake Smith aka The White Buffalo. Il personaggio: corporatura imponente, barba incolta e lunghi capelli striati d’oro e di cenere, occhi azzurri come lapislazzuli, una voce che in molti amano definire il ponte ideale tra Eddie Vedder e Bruce Springsteen, la pennata decisa sulle corde di una classica ed elegante Taylor Dreadnought.
È il caso della 517 Builder’s Edition, appartenente alla linea Grand Pacific, con top in abete Sitka, fondo, fasce e manico in mogano tropicale e tastiera in ebano Crelicam dell'Africa occidentale; un modello il cui suono è definito dalla casa madre “incisivo, caldo e autentico”.
Proprio come il songwriting di The White Buffalo, artista specializzato in storie che scavano, senza sconti, nel cuore profondo dell’America, tra strade intrise di polvere, scenari desolati, fuorilegge e generose manciate di violenza, malvagità e alcool.
“You better bless these wicked hands, because they got a mind of they're own
Don't go downtown
Devil whispers in my ear, "It's time for your curtain call"
So, I dress myself on up with alcohol”
The Whistler
Jacob Aaron Smith, originario dell’Oregon e cresciuto a Los Angeles, in California, inizia la sua parabola artistica nel 2002 con il primo full-lenght album dal titolo Hogtied Like a Rodeo. Pubblica tre EP, The White Buffalo (2005), Prepare for Black and Blue (2010) e The Lost and Found (2011), ma è nel 2012 che ottiene i primi riconoscimenti ad ampio raggio, con lo splendido Once Upon a Time In The West. Un disco che, in fondo, è anche un manifesto programmatico, un connubio di suoni e parole in grado - a più di un decennio di distanza - di far ancora sussultare per freschezza e potenza.
Su tutto, una voce baritonale da brivido: a volte simile ad una preghiera, altre volte impetuosa come una mareggiata, sempre e comunque rassicurante, nonostante il male (e i mali) di cui racconta, nonostante i drammi, le tragedie, le sconfitte, le tante, polverose battaglie della vita. The White Buffalo, le sue ballate (“ciò non funziona con voce e chitarra acustica, penso non meriti di essere inciso”) e il suo irresistibile manipolo di peccatori e perdenti, eroi e antieroi consapevoli che quel che è stato è stato, e non esiste altra possibilità se non aggrapparsi al qui ed ora.
“You can't hold the hands of time
There’s only here and now and nothing more”
No History
Sons of Anarchy, Californication, Longmire, The Punisher, This Is Us. Il nome di Jake Smith ritorna spesso in alcune delle più celebri serie TV statunitensi, si tratti - giusto per fare qualche esempio - delle vicende di un club motociclistico, di un sanguinoso e spietato vigilante newyorchese, oppure degli intricati sviluppi di una saga familiare da godere tutta d’un fiato sul divano, a luci soffuse e con un bel rifornimento di Kleenex a portata di mano.
Con Bob Dylan e Leonard Cohen nel cuore (“artisti capaci di raccontare diversi mondi, ma allo stesso tempo anche di avere un loro suono, un loro stile riconoscibile”), George Jones, Steve Earle e Townes Van Zandt dall’altro, e un background punk (Bad Religion!) che talvolta si palesa in maniera prepotente e rabbiosa, The White Buffalo ci accompagna in una rilettura tanto originale quanto personale del mito americano dimostrandoci come, di cantore in cantore, epoca dopo epoca, gli sconfinati panorami d’oltreoceano sembrino assai lontani dall’aver esaurito il fascino maledetto che, da secoli, li contraddistingue.
“The moon lights up over the battlefield now
With a blistering heat somehow
Lifeless limp and broken hearts are dead
They should have just stayed home instead”
Ballad of a Deadman |