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Soul Town: album e intervista con Mimmo Langella
Soul Town: album e intervista con Mimmo Langella
di [user #17844] - pubblicato il

Tanto amore per il jazz e il soul più una cotta tremenda per il suono dell'Hammond. Mimmo Langella presenta il suo nuovo album tutto groove e musica nera. Abbiamo ascoltato l'album e l'abbiamo intervistato per sapere di più su di lui e sul suo lavoro.
Con Soul Town, il chitarrista campano Mimmo Langella giunge alla pubblicazione del suo terzo album. Ben noto nell'ambiente chitarristico e jazzistico locale, ma con un curriculum che lo vede ricoprire più volte il ruolo di turnista e orchestrante in lavori di caratura nazionale, Mimmo dimostra fin dai primi lavori di avere una passione particolare per soul e funk. Sonorità nere e groove sono gli ingredienti principali della sua musica e Soul Town, disponibile a partire da domani 29 ottobre 2012, non fa eccezione.

I curiosi possono già ascoltare qualche estratto dal suo sito ufficiale, ma a noi Mimmo ha fornito in anteprima il disco completo, che abbiamo ascoltato per poi porgli alcune domande a riguardo.



Si schiaccia play e la prima traccia, "Green Tuesday", parte già in grande stile: ci si possono trovare quasi tutti gli aspetti principali del disco. Senza tanti complimenti entra un groove convinto di batteria e basso con la chitarra che si limita a dare gli accenti giusti mentre l'organo Hammond parte col tema. L'Hammond sarà una presenza fissa per tutto il disco. In effetti le sonorità dell'album aleggiano proprio intorno a questo strumento, con un feel vintage che non può non far immaginare un ensemble di colore che fa scatenare una sala da ballo degli anni '60. Il "non protagonismo" di Mimmo in un album che porta il suo nome è senz'altro segno di maturità: si pensa più al prodotto finale, alla musicalità dell'insieme piuttosto che a dimostrare doti già riconosciute al frontman da chi lo ha ascoltato in passato.

"Green Tuesday" si diceva. Il brano procede tutto dritto, con la base che va avanti senza curarsi di cosa succede intorno, solida e con una batteria ricca, la cui cassa ai limiti della distorsione dà ancora più energia e fluidità al tutto. Ci si aspetterebbe di sentire un predicatore chiedere un "amen" da un momento all'altro, ma non accade. Invece partono gli assolo, prima di Mimmo, poi di Tommy De Paola all'organo. Pochi fronzoli, durata contenuta. I tecnicismi non arrivano ancora ma in compenso c'è tanto spirito che rende piacevole l'ascolto anche a chi mastica meno il genere.

L'aria diventa più calda, quasi sexy, con la title track "Soul Town". Questa volta il tema è affidato a Mimmo, che esegue tutto il brano da solista, mentre l'onnipresente Hammond gli fa da tappeto. Ancora una volta il tutto è particolarmente liscio, mai prolisso e con un arrangiamento istintivo, privo di brusche svolte. La batteria "rotola" dall'inizio alla fine e, quando il pezzo sfuma via dopo 4 minuti e 50, lo si potrebbe rimandare da capo senza sentire minimamente il peso della ripetizione.

"Work Song", unica cover del disco (originale di Nat Adderley), porta con sé un'aria sbarazzina. La ritmica è qui più incalzante e il suono della chitarra, squillante e nasale, si interscambia benissimo con quello percussivo dell'organo. Ora gli assolo si fanno più "scostumati" e, quando Tommy preferisce un continuo crescendo di dinamiche e fittezza sonora, Mimmo punta su giochi ritmici per i suoi fraseggi e osa alcuni passaggi out, perfetti per un pezzo che sembra prendersi "poco sul serio".


Segue il blues tradizionale di "Pastry Cream", dove è l'Hammond ad avere più spazio. Il basso descrive una linea che diventerà caratteristica per tutto il brano sul tempo latin scandito dalla batteria. Ora i solisti sono entrati nel vivo e si divertono, Tommy a far urlare il suo organo sui registri più alti, Mimmo modulando i suoi lick con il wah.

Con "Messers P.N." i toni si abbassano. Mano alle spazzole e tappeto di organo ininterrotto per il canto malinconico di una chitarra pulita e timida. Un momento di introspezione che non dura molto: dopo 4 minuti e 44 secondi ecco arrivare un groove secco e deciso con "One Step".

Il funk "One Step" ha un sapore decisamente modale e, come lo stesso titolo suggerisce, sale uno scalino (o un semitono) alla volta dopo ogni fill di batteria lasciando ampio spazio alla chitarra solista, che gioca su un continuo crescendo di dinamica e tensioni, fino a tornare improvvisamente a un ruolo ritmico per cedere il posto all'organo, che non è da meno in quanto a groove e capacità di spingere il pezzo continuamente verso l'alto.

Il soul però è sempre dietro l'angolo, ed ecco quindi "Waiting", un perfetto brano da jam session fatto di continue interazioni tra solista e accompagnamento, nel tema come nelle improvvisazioni.
Qui tutti i componenti sembrano concedersi maggior libertà rispetto alle precedenti tracce, si incastrano e colgono gli uni gli spunti degli altri.

Un cambio di rotta drastico arriva con "Pas Word", ultima traccia del disco dall'atmosfera decisamente scura e ansiosa. Il riff di basso è ipnotico e si ripete per tutto il pezzo, su una batteria volatile, non incisiva com'era stata per il resto dell'album. Questa si alterna tra leggeri giochi sui tamburi e tappeti di piatti che talvolta accompagnano effetti riverberati al limite della musica elettronica. Dopo il lungo solo di chitarra, sempre molto rarefatta nei lick tanto da confondersi con gli altri strumenti senza mai sovrastarli del tutto, anche questa entra in una ritmica ripetitiva e ipnotica, mentre il brano sfuma come a non voler mai terminare.

Con il suo mix di facile ascolto ed esecuzione affiatata, groove trasportanti e alcune parti più ardite (come la traccia di chiusura), Soul Town dimostra di essere differente dal solito lavoro strumentale scritto, diretto e sovrastato da un unico solista, mettendo invece in primo piano la ricerca di un prodotto finale che sia piacevole anche alle orecchie degli utenti meno "dentro il genere".
Una ventata d'aria fresca in un panorama, quello del jazz, troppo spesso accusato di autocelebrazione e chiusura.

Soul Town: album e intervista con Mimmo Langella

Pietro Paolo Falco: È da quando ho ascoltato il disco per la prima volta che me lo chiedo: cosa cavolo è un "martedì verde"?
Mimmo Langella: Ahahahahah! Ti riferisci a "Green Tuesday", il brano d'apertura del disco. È un omaggio a Grant Green, il grande chitarrista jazz, il mio preferito in ambito soul jazz. Il groove base del brano è tipico di alcuni brani del chitarrista di colore, ed era un martedì quando ho finito di comporlo!

PPF: Soddisfatta questa curiosità, è il momento della domanda di rito: quali sono state le tue maggiori influenze per questo album?
ML: Cannonball Adderley in primis, l'iniziatore di questo genere, poi Grant Green, Kenny Burrell, Pat Martino, George Benson, John Scofield, Medeski Martin & Wood, Rodney Jones e Will Bernard.

PPF: In un'altra occasione mi hai accennato a un filo conduttore all'interno del disco, ovvero alcuni brani costruiti intorno a dei precisi personaggi del panorama soul. Puoi parlarmene?
ML: Sì! C'è una parte che è un vero e proprio omaggio ai grandi del Soul Jazz. Andiamo per ordine con la scaletta del disco. "Green Tuesday", come già detto, è un omaggio a Grant Green, il groove è quello di "Cantaloupe Woman", un suo cavallo di battaglia. "Soul Town", il secondo brano, è un omaggio a Cannonball Adderley. Come scrittura è molto vicino al suo classico "Mercy, Mercy, Mercy", che poi fu scritto dal suo pianista Joe Zawinul. Poi c'è una nostra versione un po’ naïf e ironica di "Work Song", un altro omaggio a Cannonball Adderley! "Pastry Cream" è un blues dedicato a Kenny Burrell, c'è un po' il mood del suo "Chitlins Con Carne", e "Waiting" è il nostro omaggio a George Benson, ha la struttura del suo "Thunder Walk". Il resto dei brani, invece, sono stati scritti senza riferimenti precisi.

PPF: Nella tracklist hai inserito una cover di Nat Adderley. Non è la prima volta che un chitarrista presta particolare attenzione al lavoro di trombettisti o sassofonisti. Sapresti dare una tua spiegazione a questo fenomeno?
ML: Nel jazz gli strumenti a fiato sono quelli che hanno il suono più adatto al genere, più cool. I chitarristi di area jazzistica ascoltano molto i sassofonisti e i trombettisti per imitarne il suono legato e il fraseggio, e... va a finire che poi suonano anche i loro pezzi!

PPF: A proposito di "Work Song", su YouTube c'è un video di una take alternativa del pezzo, ripresa dal vivo in studio. Tutto è registrato in presa diretta anche nel disco?
ML: Sì, quella è una take che è stata ripresa anche con una telecamera, non era male e così ho pensato di pubblicarla in anteprima per la rete. Abbiamo registrato tutto in diretta come avviene nel jazz, senza riprese di errori, facendo varie take e scegliendo quella migliore. Il disco è stato registrato così come si vede nel video di "Work Song".

PPF: Com'è stato lavorare con gli altri componenti del gruppo? Hanno contribuito alla realizzazione o l'arrangiamento dei pezzi oppure è tutta sola opera tua?
ML: Tutti i pezzi sono stati composti da me, tranne la cover. Ho curato anch'io tutta la produzione del disco, ma è ovvio che i musicisti che scegli per una produzione sono quelli che ti garantiscono il miglior risultato e che possono solo migliorare la tua musica. Tra l'altro nel disco c'è la mia storica sezione ritmica, costituita da Guido Russo al basso e Pasquale De Paola alla batteria, e Tommy De Paola all'Hammond, gente che sa il fatto suo!

PPF: Tra assolo e temi, nell'album concedi molto spazio all'Hammond di Tommy De Paola. È una scelta fatta in funzione degli arrangiamenti oppure semplicemente la tua passione per l'Hammond - che sappiamo apprezzi molto - ti ha portato ad affidargli un ruolo quasi da co-leader?
ML: Questo disco è incentrato un po' sul suono dell'Hammond, volevo fare una cosa differente rispetto ai miei dischi precedenti. Anche per questo ho fatto suonare alcuni temi all'organo, per avere varietà, visto che questo è il mio primo disco suonato dall'inizio alla fine da un'unica formazione.

PPF: So che sei un fiero utilizzatore di Les Paul ma non è raro vederti anche con chitarre simil Stratocaster. Cosa hai usato per questo album?
ML: Ho usato esclusivamente la mia Les Paul Goldtop '56 del custom shop Gibson, l'ampli è un Victoria Victoriette con valvole finali 6L6 e cono Eminence Legend GB128. Per la ripresa sono stati usati due microfoni, un classico Shure SM-57 posizionato al centro del cono dell'ampli e, accanto, un ottimo Royer R-121, microfono a nastro che conferisce al suono della chitarra elettrica un corpo
naturale e pieno, e compensa ciò che sfugge all'SM-57. La mia Suhr C1 SSH la uso essenzialmente per le cose pop.


PPF: Di certo non disdegni l'effettistica. Tremolo e overdrive sono usati in diversi brani e più di una volta hai un suono che ricorda un chorus spinto al massimo. Puoi parlarci della tua pedalboard?
ML: Come overdrive ho usato il Mudhoney II T-Rex, poi c'è il chorus TC Electronic con i controlli Speed e Width al massimo e Intensity a poco più della metà, con il quale ottengo una sonorità che ricorda il Leslie. Il wah è un Fulltone Clyde Standard, mentre come tremolo ho usato quello dell'ampli. In pratica, in studio mi sono portato la mia pedaliera "jazz" che trovate sul mio sito.

PPF: Immagino che ora avrà inizio una serie di concerti promozionali per lanciare l'album. Puoi anticiparci qualche data?
ML: Sì, per ora ci sono date solo nel napoletano. Domenica 18 novembre sarò al "Fabric" di Portici in Trio, venerdì 23 novembre invece suonerò in Quartetto al Menhir al Vomero. Sul mio sito ci sono tutte le info aggiornate.


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