di redazione [user #116] - pubblicato il 10 dicembre 2012 ore 07:30
“Capolavoro” è sicuramente la prima parola che viene in mente ascoltando “Little Wing” di Jimi Hendrix. Nel corso degli anni svariati artisti hanno reinterpretato il brano con esiti molto diversi.
Quali sono gli ingredienti imprescindibili di un pezzo immortale? Chissà quanti di noi si sono posti questa domanda - più o meno ingenuamente - ascoltando un brano dalla bellezza perforante. Lo sappiamo, nella sostanza il quesito è destinato a rimanere senza risposta, ma offre non pochi spunti di riflessione per meglio comprendere il valore di un capolavoro e per guidarci, all’occorrenza, nella giungla di cover che può aver generato.
“Capolavoro” è sicuramente la prima parola che viene in mente ascoltando “Little Wing” di Jimi Hendrix. Questo gioiello di due minuti e mezzo, contenuto nell’album Axis: Bold as Love, uscì nel dicembre di 45 anni fa e da allora vive attraverso l’intramontabile versione originale e una serie apparentemente interminabile di reinterpretazioni di artisti di tutto il mondo.
Curiosamente, l’eroe di Woodstock trasse ispirazione per il brano da un altro grande evento musicale collettivo, il Monterey Pop Festival del giugno del 1967 (all’epoca Jimi non aveva ancora compiuto 25 anni). Tutto gli sembrò così bello e armonioso in quel contesto che decise di trasformarlo e farlo rivivere in un’immaginaria ragazza dal nome presumibilmente indiano di Little Wing (Piccola Ala). Nelle vene di Hendrix scorreva anche sangue Cherokee e lo stile che volle dare al brano è, per usare le sue stesse parole, “uno stile Indiano-Americano molto semplice”. Il brevissimo testo della ballata evoca immagini elementari ma molto poetiche che ci trasportano in un’aerea dimensione fiabesca. La struttura del brano è in tutto funzionale alla imagery del testo: il virtuosismo ispirato dell'inconfondibile intro apre alla semplicità eterea delle strofe, per arrivare all'impennata dell'assolo che ci proietta nel finale. La vocalità è autenticamente black ma scevra da melismi e si lascia contrappuntare dalle stelle disegnate lungo il tragitto dalle note di glockenspiel, che ricordano un romantico carillon. La chitarra filtrata dal Leslie per organo, infine, dà al brano un sound unico, proprio come voleva Hendrix per quello che definì il suo “brano preferito del disco assieme a You Got Me Floating”.
Il successo di questa punta di diamante del canone hendrixiano, quindi, è da ricercarsi nell’abilità del genio di Seattle di dare una forma sonora fluida e cristallina a un insolito immaginario.
Nel corso degli anni svariati artisti hanno reinterpretato il brano con esiti molto diversi. Volendoci limitare al mondo della chitarra, basti pensare ai live del G3 con le frasi bluesy di Satriani, l'intro magistralmente personalizzata di Vai, la Stratocaster e il grande suono di Malmsteen, oppure alle esibizioni recenti di grandissimi chitarristi come Stef Burns con il suo pulito cristallino o l'inarrivabile Andy Timmons che, durante il solo del brano, riesce ad ammutolire anche la più chiassosa audience. E ancora Steve Lukather, il pluriplatinato John Mayer o, in tempi più lontani, Stanley Jordan, impegnato a suonare ritmica e melodia contemporaneamente in tapping. Sono moltissimi i musicisti che hanno inserito nei loro dischi una cover riarrangiata e reinterpretata nella propria chiave. Ne abbiamo contate almeno quaranta su disco e vi sfidiamo a trovarne altre.
1967 - The Jimi Hendrix Experience 1970 - Derek and the Dominos 1973 - Eric Clapton 1974 - The Gil Evans Orchestra 1987 - Sting 1989 - Tuck & Patti 1990 - Concrete Blonde 1991 - String Trio of New York 1991 - Stevie Ray Vaughan and Double Trouble 1992 - Acoustic Hippies From Hell 1992 - Skid Row 1993 - Paul Rodgers and Company 1994 - Pinguin Moschner and Joe Sachse 1994 - Concrete Blonde 1996 - The Hamsters 1996 - Hiram Bullock 1997 - The Corrs 1998 - Snowy White 1999 - Sonny Moorman 1999 - Eric Clapton, Sheryl Crow & David Sanborn 1999 - Nigel Kennedy 1999 - Michael Lee Firkins 2000 - Aynsley Lister 2001 - Roy Mette 2001 - Love 2001 - Ottmar Liebert 2002 - Shirley Johnson 2003 - The String Quartet 2004 - World Saxophone Quartet 2005 - Mark Doyle 2006 - Rudy Kronfuss 2006 - Popa Chubby 2007 - Greg Doney 2007 - Bonnie J Jensen 2009 - Def Leppard (bonus track) 2010 - Cranium Pie 2010 - Turtle Island String Quartet 2010 - Santana featuring Joe Cocker 2010 - Corinne Bailey Rae 2011 - Kim Versteynen
Non sempre l’innesto ha generato magia comparabile all’originale, ma vale la pena prendere in analisi alcuni di questi esperimenti per vedere cosa è sopravvissuto, cosa è andato perso e cosa è stato aggiunto ex novo.
Gil Evans & Sting
Gil Evans, con la sua orchestra, nel 1975 scrive un album reinterpretando la musica di Hendrix. Molto probabilmente questi arrangiamenti colpiscono Sting che chiama Evans a suonare e arrangiare le parti orchestrali del suo Nothing Like the Sun. Il disco è un capolavoro di Sting e contiene quella perla che è “They dance alone”. Nel disco ci sono ospiti illustri come Eric Clapton e le atmosfere sono tutte curatissime, a impreziosire il cantato di Sting. Alla chitarra troviamo lo scomparso Hiram Bullock che propone un lungo solo, molto ricco di melodia e dal suono sognante, quasi flautato. Il chitarrista proporrà poi il brano in suo disco solista, a testimonianza di quanto Hendrix fosse stato per lui influente. Ottimo anche il solo del sax contralto, da ascoltare.
Stevie Ray Vaughan Stevie Ray Vaughan ne fa una versione stupenda e strumentale, così rispettosa di Jimi che il cantato viene omesso, per farci ricordare la voce di Hendrix con la sola musica. Il brano è contenuto in “The Sky Is Crying”, vincitore di un grammy award nel 1991 e disco postumo, uscito dopo la morte di SRV. Forse per questo il brano racchiude tanto fascino quanto l’originale, forse perché i due grandi sono scomparsi e vivono solo nel ricordo e nelle loro note. Si propone di seguito una versione live del brano.
Skid Row Il lato più rock della cover non tarda ad arrivare quando, nel 1992, Sebastian Bach ne fa una versione con i suoi Skid Row, vestendola di glam e reinterpretandola con la sua voce grintosa e (in studio) strepitosa. Anche i Def Leppard ne fanno una cover ed è una bonus track per il remaster di Adrenalize, nel 2009: granitica.
Tuck & Patti Patricia Cathcart (Patti) è nata e cresciuta nella Bay Area di San Francisco, dove sul finire degli anni ’60 ha assistito a concerti di artisti leggendari. Nel corso di uno di questi, in occasione del suo compleanno, Hendrix si rivolse a lei chiamandola “Foxy Lady” e lanciandola letteralmente in orbita. Doveroso rendergli omaggio in uno dei dischi del duo col marito Tuck Andress, altro fan sfegato. La coppia di artisti ha fatto delle cover la propria missione, realizzandone numerose e riuscendo sempre a renderle personalissime col solo ausilio di chitarra e voce. Nel disco Love Warriors (1989), “Little Wing” emerge da “Castles Made of Sand” in uno stupendo medley hendrixiano in cui la calda voce gospel di Patti scivola sugli splendidi arrangiamenti fingerstyle di Tuck, in una versione molto ispirata e dal grande groove.
Derek and The Dominos Dopo lo scioglimento dei Cream, Clapton diede vita alla band, che annoverò anche Duane Allman (Allman Brothers). Il 9 settembre 1970 registrarono “Layla” e “Little Wing” per l’album Layla and Other Assorted Love Songs, che sarebbe uscito un paio di mesi più tardi. Voleva essere un tributo all’amico e “rivale” di cui sia Clapton che Allman erano grandissimi ammiratori. Purtroppo Hendrix morì soltanto nove giorni più tardi senza aver mai sentito il brano, che rimane una delle cover più genuine e meglio riuscite. Con un intro creato ex novo, questa versione dal sapore più rock-blues e molto più estesa dell’originale per via dei lunghi assolo sembra a tutti gli effetti un brano di Slowhand.
Corinne Bailey Rae Una delle cover più recenti di “Little Wing” è quella comparsa come bonus track per l’uscita su iTunes del disco The Sea (2010) di Corinne Bailey Rae. Neanche questa cantautrice inglese è nuova alle cover e forse alcuni di voi rammenteranno le sue interpretazioni di brani dei Led Zeppelin, di John Lennon e di Bjork. In “Little Wing” la Bailey Rae rende omaggio a uno dei suoi maestri con una versione sobria e davvero low profile, che non si distingue sicuramente per l’originalità o la complessità dell’arrangiamento, ma trova nella tradizione soul-blues una chiave interpretativa interessante, con cori che la riconducono ai rituals. A dimostrazione del fatto che una sequenza armonica vincente può davvero tutto.
Tuttavia, di alcune versioni potevamo sicuramente fare a meno.
Concrete Blonde Non bella, non brutta. La cover contenuta nell’album Still in Hollywood (1994, ma incisa nel 1990) della band statunitense è una versione che sembra non aggiungere nulla alla storia del brano, ma pare piuttosto una copia sbiadita e un po’ stucchevole dell’originale (con tanto di glockenspiel). L’arrangiamento ricalca abbastanza fedelmente l’originale e il brano riparte dopo il solo - come quasi tutte le versioni successive a quella di Hendrix – senza aggiungere nulla di particolarmente pregevole o di originale. Amare semplicemente un pezzo ne giustifica l’incisione e l’inclusione in un disco? Questa versione fa riflettere.
The Corrs L’innesto nell’atmosfera celtica sembra non giovare troppo alla hit hendrixiana. Nel secondo disco del gruppo irlandese The Coors, Talk on Corners (1997), infatti troviamo una cover di “Little Wing” che non rende giustizia all’originale. La ricerca forzata dell’effetto-Irish fiacca questa interpretazione, appesantita da un arrangiamento che mette in vetrina solo i luoghi comuni del retaggio musicale celtico, con trovate particolarmente agghiaccianti. Il pezzo agonizza per più di cinque minuti sotto la tortura di zufoli e violini misti a batteria elettronica e un cantato moscio, nonostante la voce gradevole di Andrea Corr. Strumento di tortura alla moda irlandese.