di fabiomarazzi [user #34443] - pubblicato il 03 ottobre 2013 ore 07:30
Non è ben chiaro a chi sia orientata questa release, ma forse questa è una prima buona notizia. In un periodo dove tutti rischiano poco e niente per paura di perdere i propri fan, Flying Colors si allontana dagli schemi.
Non è ben chiaro a chi sia orientata questa release, ma forse questa è una prima buona notizia. In un periodo dove tutti rischiano poco e niente per paura di perdere i propri fan (e perdendoli poi per noia), un disco del genere, sebbene lungi dall'essere rivoluzionario, tenta quantomeno di allontanarsi un po' dagli schemi.
I protagonisti in questione, a onor del vero, possono anche permetterselo: Flying Colors è infatti una "superband" composta da Mike Portnoy, Steve Morse, Neal Morse, Dave LaRue e Casey McPherson. Se i primi quattro nomi suonano certamente familiari a chiunque abbia quantomeno un'infarinatura del prog-rock (ma non solo, visti i personaggi) degli ultimi decenni, lo stesso non si può dire dell'ultimo: McPherson è infatti il proverbiale "coniglio dal cilindro", l'elemento a sorpresa che fa funzionare il trucco. Il sostanzialmente sconosciuto (quantomeno in Europa) cantante risulta essere uno degli aspetti migliori di questo lavoro, stemperando la verve strumentistica dei compagni con una vocalità espressiva e controllata. Un'altra buona notizia è che nessuna delle forti personalità coinvolte risulta essere particolarmente invadente, evidenziando al contrario una buona coesione che garantisce scorrevolezza ai brani.
Già, si diceva, ma in che direzione va questo disco? Chiunque si aspetti un disco zeppo di tempi dispari, digressioni strumentali e strutture non convenzionali rimarrà perlopiù a bocca asciutta: fatta eccezione per i brani in apertura e chiusura del disco, la maggior parte del materiale non si allontana troppo dalla classica formula pop-rock. "Flying Colors" è un disco orecchiabile e tecnicamente ineccepibile (particolarmente pregevoli le chitarre di Steve Morse e il contributo sobrio ma essenziale delle tastiere dell'altro Morse, Neal), dove si apprezza il tentativo di evitare per quanto possibile i riferimenti e le allusioni alle band di origine, finendo però, paradossalmente, per richiamarne spesso altre.
I migliori episodi si registrano con l'opener "Blue Ocean", la tanto grintosa quanto orrendamente titolata "Shoulda Coulda Woulda" (fra Kings'X e Stone Temple Pilots), la funkeggiante "Forever in a Daze" e la vellutata "Everything Changes". La band non è male neanche quando strizza l'occhio a Foo Fighters e Coldplay ("The Storm"), o quando flirta con i Fab Four in "Love Is What I'm Waiting For", ma finisce leggermente fuori giri quando esagera con lo zucchero (il ritornello di "Kayla") o quando preme troppo sull'acceleratore (la caotica "All Falls Down").
A conti fatti l'esperimento di "unire quattro virtuosi a un cantante pop", citando la bio, si può ritenere decisamente più riuscito di innumerevoli altri "supergruppi": il disco scorre gradevolmente e sembra crescere con gli ascolti, pur con qualche perplessità sull'eterogeneità del materiale, che manca forse di una chiara personalità di insieme.
PS: A livello di curiosità, potete ascoltarvi il disco anche solo per sentire Portnoy cantare, effettatissimo, su "Fool in My Heart" (e domandarvi se desiderate ripetere l'esperienza).
Recensione realizzata in collaborazione con MS Records.