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Musica, canone e comunicazione, ma dov'è l'arte?
Musica, canone e comunicazione, ma dov'è l'arte?
di [user #29992] - pubblicato il

Era il 1959 quando sulla rivista "nuovi argomenti" la coppia Carocci-Moravia evidenziava un presunto problema di crisi del sistema delle arti in senso lato, cercando di dare risposte, formulando ipotesi su cosa fosse l'arte, e cosa sarebbe potuta divenire.
Era il 1959 quando sulla rivista "nuovi argomenti" la coppia Carocci-Moravia evidenziava un presunto problema di crisi del sistema delle arti in senso lato, cercando di dare risposte, formulando ipotesi su cosa fosse l'arte e cosa sarebbe potuta divenire.

Certo, per noi uomini e donne del 2014, questa crisi del sistema artistico sembra lontana, anzi direi inesistente. Del resto proprio dal '59 in poi, ci siamo ritrovati immersi in un panorama artistico immenso, fruibile per i più e di cui siamo per molti versi, sudditi fedeli.
Cos'è che mandò in crisi allora il sistema delle arti nel secolo passato, per noi costruzione invece di qualcosa di immensamente grande?

Senza dubbio il punto di riferimento  per parlare di "arte" per i due celebri letterati citati in precedenza era l'arte non in senso lato, come insieme di musica, letteratura, cinema, pittura e via dicendo, ma quella che fino al 900 fu considerata la prima di tutte le arti: la letteratura. Cosa era cambiato allora? Calvino asseriva che l'arte sarebbe cambiata con il progredire dei mezzi di comunicazione sempre più rivolti alle grandi masse, ed è qui il nodo cruciale della questione. Dal ventesimo secolo in poi l'arte non poteva essere più la stessa, non solo scritta o impressa su supporti rigidi come pareti, tele e fogli, ma poteva essere percepita diversamente dal suo pubblico ed avere proprio come pubblico non più il suo, piccolo e isolato, ma un pubblico vasto, quasi illimitato.

La musica era sempre esistita, ma da questo momento in poi era possibile tramandarla nel tempo e non solo con spartiti che potevano privare della reale dinamica ed emozione di quello che ormai a noi piace chiamare live, bensì rubando quell'attimo fugace dall'esecuzione, quel frammento, quella vibrazione di ottoni, legni e corde.
La musica poteva dar voce a un acerbo cinema muto, creare emozioni nei confronti di un ricevente del messaggio, poteva ora essere fruibile senza aver necessariamente davanti un esecutore umano o meccanico (come furono i primi carillon).

Il progresso della tecnologia e i mezzi di comunicazione di massa si preannunciavano quindi come l'inizio di un nuovo mondo artistico, di cui il cinema e la musica sarebbero stati i principali esponenti. Del resto noi servi fedeli dei nostri miti passati e presenti, ascoltiamo e ascoltiamo ore di registrazioni, da quelle più arcaiche grezze e percepibili tra mille rumori di fondo (da Robert Johnson a Son House), fino ai più moderni live come il maestoso "Celebration Day" dei Led Zeppelin.
Possiamo simulare quell'attimo di straordinaria creatività ovunque, in particolar modo oggi, possiamo creare la nostra colonna sonora in qualsiasi momento della nostra esistenza.

La comunicazione ha permesso a quei favolosi anni sessanta e settanta di restare vivi nelle menti e nelle orecchie di chiunque voglia, ha permesso che dei piccoli gruppi inglesi divenissero divinità incontrastate per più di mezzo secolo in tutto il mondo.
L'arte mai come oggi ha la possibilità di essere espressione del sapere, del pensiero conscio o inconscio umano ovunque e subito. Detto ciò, qual'è il problema? Perché per scrivere un papiro così noioso deve esserci qualche problema.
Il problema è che purtroppo nel momento in cui più ne avremmo bisogno e in cui ci sarebbe più facilità e libertà per fare arte, questa viene a mancare, o meglio non è presente nella misura in cui ne avremmo necessità. Ed è qui il paradosso del 2014.
L'arte si sa, è figlia del suo tempo, cosa sarebbe stata la nostra amata musica degli Stones, degli Who, dei Pink Floyd, senza il sessantottismo, senza gli anni di piombo, senza l'oppressione del bianco sul bianco spinto a riconciliarsi con quelle popolazioni oppresse da secoli in un unico canto blues di protesta senza distinzione di razza? Cosa sarebbe stato il Decameron senza la peste di Firenze? O quel lungo filone cinematografico sulla guerra e le sue conseguenze con film come "Il cacciatore", "apocalypse now" o "taxi driver", senza il Vietnam?

Di conseguenza cosa dovrebbero essere Mika, Emma Marrone, Justin Bieber, Miley Cirrus (non vado oltre per non offendere i nomi precedentemente citati)  nel 2014 periodo di crisi mondiale, se non frutto del loro tempo?  Frutto di un tempo in cui la rabbia e la volontà di cambiare sono spariti nel panorama artistico, la voglia di essere scarto rispetto a un canone prestabilito è finita chissà dove e si è frutti del proprio tempo solo ed esclusivamente come frutto di canoni, costumi, finzioni.

Parafrasando ulteriormente, oggi l'arte è frutto del suo tempo non perché ne combatte i mali, ma perché incarna la sua malvagità nella sua essenza.
Del resto è dal medioevo che esiste un canone artistico che stabilisce cosa possa andare avanti e cosa no, canone gestito da intellettuali al servizio del potere, del denaro e ai quali si sono sempre contrapposte menti illuminate in ogni modo, cantando, scrivendo, registrando. Da Dante a Lou Reed.
E oggi?  Nulla di tutto ciò, anzi aggiungerei che alla cultura di scarto, all'underground degli anni sessanta, è stata contrapposta una "controcultura canonizzata", quell'insieme di artisti che simulando un apparente aspetto controcorrente, fingendosi rocker, rapper e profeti di una rivoluzione immaginaria,  tengono lontane le masse grazie a mezzi di comunicazione inimmaginabili, anche per il solo decennio precedente, dalla vera controcultura, dal vero scarto di cui avremmo bisogno e non solo, creano mode alternative, oppressione maggiore.

Sono stampini vuoti di cui chi non vuole riconoscersi nella cultura borghese-capitalista alta, può sentirsi parte, parte di una sorta di proletariato fantoccio a livello musicale-culturale e non solo. Tutto oggi è una App, flash, veloce, un lampo e siamo costantemente bombardati da fenomeni rapidissimi, atti a correggere un po' alla volta, sempre di più la direzione di una massa di vecchie bestie da soma che forse forse iniziano a provare piacere a sentirsi dire cosa fare. A chi interessa fermarsi per pensare? A loro piace, del resto dicono di provare emozioni umane con questo o quell'artista di cui non scrivo il nome perché domani potrebbe non essere più su nessuna pagina di alcun social network, potrebbe non esistere già da ora tale è la forza e la rapidità della comunicazione.

Quindi, chi siamo noi oggi (dico noi per contrapporci a loro e citare un titolo di una nota canzone us and then)? Noi siamo lo scarto, ma uno scarto privo di quella potenza mediatica fondamentale per vincere la guerra del quarto potere, uno scarto anch'esso ormai canonizzato. Noi siamo il grande classico del passato, il fantoccio con cui si giocava da bambini, ma ora lasciato in disparte sul comodino.
Ma se così non fosse?

Tear down the Wall 
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