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Raccontare qualcosa attraverso un limite
Raccontare qualcosa attraverso un limite
di [user #116] - pubblicato il

La recensione di "Nero", recente disco di Federico Poggipollini ha mosso grandissimo interesse e acceso tante discussioni. Coinvolgiamo Federico per farci raccontare l'album nei dettagli: dalla produzione in America, agli strumenti vintage italiani. Lasciandogli anche la possibilità di descriversi al di fuori di quei cliché chitarristici che gli stanno stretti.
La prima domanda che ti facciamo è su B.B. King. Nel tuo singolo "Religione" dici di sentire suonare Dio nella sua musica. La scomparsa di B.B. King è stata una perdita dolorosissima. Pensa che per BB King, perfino sua maestà Malmsteen si è sbilanciato come non aveva mai fatto, dicendo che una sua nota valeva 100 delle sue. Per te cosa ha rappresentato B.B. King?
Nel blues è stato uno dei chitarristi che mi ha influenzato di più.
E lo ha fatto indirettamente, perché King è stato una grande influenza di Eric Clapton, Jeff Beck e Rolling Stones e io ho scoperto e amato prima loro. Così, attraverso questi artisti, ho conosciuto poi B.B. King. 
Spesso arrivi a scoprire grandi artisti, che magari non sono quelli della tua generazione, perché li trovi citati in band più recenti, attuali. Così, se sei uno che ha voglia di ricercare e scoprire, ti vai a trovare i dischi da cui le band che segui hanno tratto ispirazione. 
Sono d’accordo con Malmsteen! E il fatto che io abbia citato B.B. King in Religione, è proprio per la stima infinita che ho per la sua musica, per il peso di ogni sua nota.
Sento Dio nelle persone, attraverso qualcosa di speciale che trovo nel loro operato: qualcosa che fanno, il loro modo di comunicare. Nel caso dei bluesman che cito nel testo di “Religione” questa cosa è la loro musica.

Raccontare qualcosa attraverso un limite

L’album è stato interamente realizzato con strumenti d’epoca italiani. 
Come ti è uscita questa idea?
Si, ora ti spiego un po’ come è andata: il disco è stato registrato tra Bologna e San Francisco. È un omaggio ai classici del rock che ho sempre ascoltato. “Religione” è molto vicino al suono dei Sonics, una band anni ’60, di garage rock americana, per esempio. 
Il produttore, Michael Urbano (che suona anche con me la batteria nella band di Ligabue)  è una persona con cui mi sono trovato benissimo. Abbiamo la stessa idea musicale, la stessa linea, anche nelle scelte della produzione. Lui è un amante degli strumenti vintage italiani ed è capace di ottimizzarne il suono. Io sono un fanatico della musica di quel periodo e avevo già una rosa di strumenti, tipo chitarre Galanti e Meazzi ...
E’ stato sufficiente fare uno più uno! 

Suonare strumenti così vecchi, oltre che a condizionare il suono, ti condiziona anche nella maniera in cui suoni e componi?
Certo, suonare strumenti del genere ti condiziona: l’approccio che hai su queste chitarre è diverso da quello che hai su una moderna. Poi ho utilizzato corde lisce, più grosse e con un'action alta; e questo ha contribuito a rendere più crudo il modo di esprimermi. Ho anche usato vecchi delay analogici, con i quali di certo hai meno possibilità: ma questa cosa ti permette di comunicare in maniera molto più immediata. Tutto il disco ha questa tipologia di suono. E’ un album per intenditori.
In questo disco ho cercato proprio di esprimere il mio background, tutte le mie esperienze e credimi, ne ho avute tante. Ho sempre voglia di scoprire, mettermi in gioco, rischiare. Ovvio, se per questo disco fossi entrato in uno studio usando il computer in maniera tradizionale, la strumentazione nuova e perfettina, le cose sarebbero state molto più precise. Ma avevo bisogno di fare musica come volevo io.
Il volume della chitarra è spesso molto forte e non ci sono sovraincisioni. Nel disco sono finite tante parti suonate a mo’ di jam, che sono state tenute perchè portano quel sapore da musica e musicista da club.
Il disco è stato fatto in presa diretta: abbiamo cercato di mantenere le libertà musicali che si creano in una jam session, lasciando tutte quelle sfumature del live e senza nemmeno togliere le sbavature. 
Credo che la sinergia tra si crea tra musicisti che suonano, se viene ripresa in un certo modo e messa così integra su disco, dia un qualcosa di più rispetto alla musica spesso stereotipata che senti in giro adesso.

Se si è abituati a maneggiare chitarre attuali, quando ci si mette al collo una chitarra così vecchia la prima cosa di cui ci si accorge è quanto diavolo è dura da suonare...
La difficoltà è stata ritrovarsi in un mondo completamente diverso: ti ci devi adattare. Se ti fanno fare un assolo in sala di regia, con una chitarra Galanti con corde lisce e alte 3cm dal manico, tu non puoi fare uno sweep! E se lo fai, fa schifo! A quel punto, devi raccontare qualcosa attraverso un limite. Li viene fuori un musicista. Si capisce che sei completo. Io ho anche tanti strumenti moderni, so bene quale sia la differenza, però per questo disco, proprio per questa ragione, ho voluto cavalcare questo limite con grande entusiasmo. E non solo per le chitarre. Il Krumar, per esempio, non è una tastiera facile da usare; devi adattarti a tutte queste piccole pecche che hanno gli strumenti vecchi e farle diventare pregi. 

Raccontare qualcosa attraverso un limite

E’ vero: questa spontaneità si respira per tutte le tracce del disco, così come l’impronta Lo-fI. E’ anche vero, però, che la produzione è molto attuale: i riff suonano perfetti sul tempo; la batteria è dritta e potente, molto moderna. Come hai incastrato un suonato alla vecchia, verace e sanguigno, dentro la griglia precisa di una produzione moderna? 
Credo di non essere il primo ad aver fatto un’operazione del genere. I Black Keys hanno preso i classici del blues e li hanno rifatti in chiave moderna. E io, a mio modo, ho fatto la stessa cosa: ho preso vecchie chitarre italiane e le ho sparate in vecchi amplificatori, sempre nostrani, che ti danno poche possibilità: hanno poco sustain e ti fanno utilizzare in modo diverso le mani.
Ma tutto poi è stato editato utilizzando in post-produzione attrezzature moderne e, ovviamente, Pro-Tools.
E questo è stato il merito del lavoro di Michael, che è uno che in America, oltre a essere un musicista attivo, insegna anche queste cose, la produzione, come riprendere gli strumenti… Da lui ho imparato tantissimo. Quando lavori con una produzione americana, respiri un’aria diversa e capisci cose che non potevi capire prima. 

Per esempio?
Gli americani hanno un orecchio diverso: gli piace molto sperimentare, sicuri comunque di avere già in testa il suono che vogliono. Credimi, in questo disco ci sono delle take che se fossimo stati in Italia, stai certo sarebbero state scartate. 
Abbiamo registrato con un suono già ottimizzato, pronto all’uso. Michael ha fatto poi un lavoro di aggiunta: parti di percussioni, tante altre sfumature. Ma le chitarre, contrariamente a come si fa di solito, sono state registrate già con i delay, i riverberi e gli effetti. 
Tutto in diretta, senza nessuna aggiunta di effetti in fase di mix. Una grande differenza! Tutti i suoni sono stati ripresi già confezionati, equalizzati: noi registravamo nel banco con già eq e compressione. Pensa che anche la voce l’ho registrata così, già effettata. Queste sono alcune delle aggiunte di stile e valore portate dalla produzione americana.
Ovviamente, lavorando in questo modo, un po’ di paura l’ho avuta: perchè stavo facendo una cosa per me nuova, non ero sicuro che il risultato sarebbe stato quello che volevo. 
E proprio per questo, "Nero"  è un disco molto importante, contiene tanto di me. Se avessi lavorato con un modus operandi che già conoscevo sarebbe stato più facile: ma mi sono fidato perché conosco bene Urbano e il suo team. E mi ha conquistato il loro approccio entusiastico alla produzione, quasi un po’ adolescenziale: sono proprio dei ragazzini di fronte a queste cose (ampli, chitarre, riprese, microfoni, effetti…) e ci siamo divertiti un sacco. 

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Pensi che proporrai alcuni di questi modi di lavorare nelle prossime produzioni italiane nelle quali sarai coinvolto?
Lo spero proprio! Sono una persona che cerca sempre stimoli nuovi: non mi sento mai a posto in tutto quello che riguarda il mio lavoro e la mia passione. Mi piace un sacco la musica, ci vivo dentro e il fatto di scoprire cose nuove mi ha sempre stimolato. Questa esperienza mi ha segnato e di sicuro spero di poterla portare come un valore per arricchire i miei futuri lavori qui. 

Queste chitarre vecchie te le porti anche dal vivo?
No, il tour l’ho iniziato utilizzando la mia strumentazione abituale. Utilizzare le chitarre vintage è un po’ complicato, più che altro perché sono strumenti che ho ricercato per anni e a cui tengo davvero tanto. Mi sono ritrovato a comprare delle cose che ricordavo da ragazzino, andavo nei paesini a cercarle. Ci tenevo che fosse roba praticamente nuova. Proprio perché ho fatto una grandissima ricerca, ho delle chitarre vecchissime che sembrano uscite di fabbrica da pochi giorni. Quindi, portarle in giro, mi dispiace davvero! Poi se dovessi essere fedele a quello che succede nel disco, dovrei cambiare ogni volta strumento e amplificatore, perché nelle registrazioni ho fatto così. Sarebbe impossibile e rischioso. 
Ma alla fine il live è diverso: quando hai in testa il suono che vuoi, lo ritrovi. Io ho capito com’è quel mondo e so ricreare quel timbro. Certo, magari non è identico e perfetto ma per il live, come dicevo, può andare bene. Ho fatto varie prove e ho trovato un set up che mi dia soddisfazione. 

E per gli effetti?
Per avvicinarsi al suono del disco ho messo tutti gli effetti davanti all’ampli, anche i delay, così come si faceva una una volta, senza send-return. Ho aggiunto alla pedaliera vari fuzz e ne nomino giusto uno che per me è incredibile: il Sinfhoton della Montarbo. Un pedale fantastico che usato in una certa maniera risulta interessantissimo. 

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Senti, tu sei chitarrista, cantante,  autore, produttore: un rocker a tutto tondo. Spesso sui forum e nelle riviste, finisci in elenco con musicisti come Massimo Varini, Andrea Braido, Luca Colombo....Session man e chitarristi italiani che hanno un DNA decisamente diverso dal tuo. Come la vivi?
Sì, devo dirti che io sono diverso da loro. La mia visione musicale è spesso essenziale e non necessariamente così chitarristica. Di fronte a una canzone mi metto proprio totalmente a servizio del pezzo. E questo lo faccio realmente da sempre. È il mio modo di vivere la musica. Sono una persona egocentrica ma di fronte a un brano, con grande umiltà mi metto - lo ripeto - totalmente al suo servizio. Ho i brividi e mi emoziono quando trovo che la mia parte è quella giusta all’interno della canzone. Io ho iniziato da ragazzino con una band, lavorando sui pezzi e componendoli. Attraverso il mio gusto e la mia cultura musicale, mi viene molto facile trovare quale parte possa funzionare in un brano. Questa, probabilmente e in qualche modo, è la mia fonte di talento.

Invece chi è il tuo eroe della chitarra?
Io sono innamorato perso di Jeff Beck. Arrivo, e mi sono formato, da diversi periodi musicali e ho ascoltato di tutto. Ma poi, ho virato sulle cose che trovavo più vicine a me. Ho sempre cercato musicisti che raccontavano storie  in maniera tecnica. Ma tecnica, non nel senso della velocità, ma nel loro modo unico, specifico e ricercato di dire una cosa. La tecnica è trovare una forma di linguaggio che sia tua; e se uno ti vuole copiare deve copiarti proprio in quella. La velocità non c’entra, è solo un aspetto. Jeff Beck è così: magari non va a 1000 all’ora ma dà a ogni nota, un peso specifico devastante.

Raccontare qualcosa attraverso un limite

Senz’altro essere il chitarrista di Ligabue, un‘icona vivente della musica italiana, dev’essere gratificante. Ma che libidine portare dal vivo uno spettacolo totalmente tuo…
Certo! Un artista come Luciano ha uno show che riserva  momenti di protagonismo a ogni musicista: ognuno ha il suo e deve gestirlo, mettendosi comunque al servizio dello spettacolo. 
Ovviamente, dopo 25 anni con Ligabue, io partecipo molto anche a livello di arrangiamenti.
Invece quando sono da solo, faccio quello che voglio: se a un certo punto voglio fare 15 minuti di assolo parto e lo faccio! Nel disco, infatti, ci sono delle code musicali spettacolari, prese in diretta e lasciate esattamente come sono.

Senti, l’ultima domanda da nerd chitarristici. Hai fatto un disco di rock attuale con strumenti italiani degli anni '60 che da molti sono considerati, diciamocelo,  ciofeche. Ma il disco suona di brutto. Un bello schiaffo morale a chi si svena con custom shop e pedalini boutique...
Sì, è una strumentazione considerata di serie B: sono effettivamente strumenti economici, fatti alla buona, ma che hanno un loro suono, un loro perché. La differenza sta nel sfruttarli con la giusta attitudine. Questi strumenti, in questo momento, secondo me possono regalarti qualcosa di più delle cose nuove che magari non conosci. Questi strumenti (a patto di trovarli in buone condizioni) possono toglierti delle grandi soddisfazioni.
Anche per quanto riguarda gli ampli ho usato un sacco di cose vintage, soprattutto combo italiani da pochi watt. Mi ha confermato anche Michael che utilizzare questi amplificatori regala sfumature molto interessanti; possono essere portati a saturazione in fretta ed essere ripresi con microfoni a nastro più delicati. Puoi ottenere un sound davvero al top. 

federico poggipollini interviste
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