Gary Hoey sbuca nella scena rock chitarristica all’inizio degli anni ’90. Non è un grande momento per la musica strumentale: smaltita la sbronza delle acrobazie shred anni ottanta, gli unici guitar hero a sopravvivere sono quelli che si mettono al servizio di grandi band (Paul con i Mr. Big, Nuno con gli Extreme, Richie con i Poison…). Eppure Gary confeziona un disco strumentale che fa il botto, grazie soprattutto al singolo cover dei Focus. Il merito è proporre un rock vigoroso, sfacciato, un pizzico pacchiano ma mai tecnicamente esasperato. Gary suona come uno che, seppur cresciuto a pane e Gary Moore, ultimamente è in fissa con Satriani. Insomma, fa centro: si guadagna una certa notorietà tra le e si tiene a galla tra collaborazioni, tour (addirittura da spalla a Jeff Beck) e realizzazione di colonne sonore (addirittura per la Dysney). Così per quasi vent’anni, nei quali s’inventa anche la collana in chiave rock. Fino al 2013, quando arriva la svolta blues e Gary pubblica . Il chitarrista pare più a suo agio che mai in questa veste, il disco piace e in tre anni Hoey arriva a firmare per la , la stessa etichetta di Joe Bonamassa, Robben Ford, Gov’t Mule. Bel colpo, ragazzo!
Ed eccoci cosi a . “Il blues mi ha salvato dalle canzoni natalizie? Bene. Io lo ripagherò con tutta la passione, rispetto e coerenza possibile” Avrà pensato così Hoey, che confeziona un album cantato di hard blues autentico e viscerale, celebrando con tutta la foga, la cura e la maestria di cui è in possesso (e non è poca) il genere che gli ha regalato una seconda giovinezza. Per gran parte del lavoro Gary non sembra proprio volersi scollare dai tre accordi del blues (primo, quarto e quinto grado) nemmeno con una pistola puntata alla tempia e se la suona che è uno spasso. Tanto più, che i suoi suoni sono letteralmente una delizia; riff e svisate sono come grassi e rotondi salsicciotti che sfrigolano su valvole incandescenti. Se nella scrittura e nella produzione del disco, la coerenza stilistica a blues e rock blues è totale, nel fraseggio solista, invece, Hoey è molto più libertino. Senza andare mai troppo sopra le righe, in più di un assolo Gary schiaccia l’acceleratore e ci tiene a farci sentire sentire che – comunque - è stato un guitar hero dei tempi d’oro, con tanto di capelli lunghi, permanente, 24 tasti e Rocktron nel send-return; e così, tra pentatoniche strapazzate, slide, blue note e bending cazzuti non mancano – e non stonano - plettrare, belle svisate in legato, accattivanti incastri acrobatici tra triadi e arpeggi incastonati su sequenze in misolidio. Gli assolo di “Ghost of Yesterday”, per esempio, sono magnifici e l'omaggio a Chris Rea nello strumentale "Soul Surfer" è una chicca.
Impreziosito da un duetto con Lita Ford, “Dust & Bones” è un disco a cui dare una chance. Non si fa tempo a dire che non c'è niente di nuovo o particolarmente originale che ci si accorge di averlo fatto girare sul piatto, dall’inizio alla fine, almeno tre volte. Perché, forse, da un disco del genere, l’ultima cosa che si vuole è proprio che non sia rassicurante e familiare nella piena adesione al suo linguaggio formulare. “Dust Of Bones” celebra il blues in maniera franca ma anche moderna. Un disco tosto, da ascoltare a volume alto, con i finestrini dell’auto abbassati o con una birra ghiacciata in mano mentre si cuoce il barbecue. Sicuri che le perle chitarristiche snocciolate da Gary, il giorno dopo vi sproneranno a smaltire tutto, sudando sulla sei corde.
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