Com’è il nuovo disco al quale stai lavorando?
È un album che nasce da un lavoro di ricerca. Sentivo un’autentica necessità di vestire con una chiave rock, o comunque più moderna, una serie di canzoni del passato che sentivo ancora attuali e credo meritassero una nuova visibilità
Ancora attuali in cosa: nel suono, negli arrangiamenti, nei testi?
Nelle parole. Sono partito dai testi e dalle melodie. E ho cercato canzoni che fossero, almeno per me, perle nascoste. Infatti non si tratta di Hit, sono andato letteralmente a spulciare nella produzione di artisti come Ivan Cattaneo, Alberto Camerini, Ivan Graziani…Sono tutti artisti che hanno avuto un grande successo ma dei quali credo esista una parte di repertorio ancora da scoprire: un piccolo mondo musicale da approfondire che, come artista, volevo contribuire a far affiorare.
Gli artisti che nomini sono tutti a cavalli tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80…
Esatto: è proprio quello il periodo in cui ho svolto la mia indagine e selezionato i brani da mettere nel disco. Del resto avevo anche bisogno di mettere le mani su canzoni che avrei potuto cantare, fare mie, sentirmele cucite addosso.
Quello che invece hai individuato è il periodo della fine del punk, dell’inizio della New Ave. Che coincide anche con l’inizio della tua attività musicale…
Esatto. Vengo da quella scena. Quindi, quando mi sono chiesto: “Che cosa posso cantare in maniera autentica?”. In quel periodo storico – e poi in tutti gli anni ’80 - ho trovato grandi autori e interpreti come Finardi, Graziani, Lavezzi, Oscar Prudente, Enzo Carella che ho sentito – oltre che attuali – vicino alla mia sensibilità, alla mia storia.
È stato facile scegliere i brani?
Sono stato molto autocritico. Ci sono dei brani che avrei voluto fare, per esempio qualcosa degli Skiantos che ho sempre ascoltato. Ma la voce, i testi sono decisivi in una canzone ed è impossibile interpretarla in maniera credibile se non te li senti addosso, se non riesci a farli tuoi. E con gli Skiantos, con quella voce unica, quei testi che sconfinano nel demenziale per me era davvero difficile: faticavo a metterci del mio.
Quindi, a malincuore, ci ho rinunciato. E la stessa cosa è successa con altre canzoni che avrei adorato riproporre come “Pupa” di Ivan Cattaneo. Le ho scartate perché non riuscivo a raccontarle, a interpretarle con l’intensità che avrei voluto. Avrei voluto fare anche qualcosa di Dalla…
E invece?
Invece, benché lo ami da morire, sia un bolognese come me e ci fossero cose interessantissime della sua prima produzione che avrei voluto interpretare, c’era proprio, da parte mia, un problema di credibilità. Perché le canzoni che cercavo io dovevano avere delle grandi melodie, dei testi che mi affascinassero ma mi lasciassero il margine per metterci qualcosa, farle mie. Ma nel caso di artisti come Dalla, invece, i testi raccontano storie cosi dettagliate, così intime, cantautoriali…così come i testi degli Skiantos sono così personali da faticare, nel caso di entrambi, a sentirle interpretate da altri.
Hai prodotto il disco da solo?
No, in questo disco alla produzione c’è Michael Urbano con il quale ho lavorato nel mio precedente lavoro “Nero”. Michael è un batterista, arrangiatore e produttore americano che ho conosciuto lavorando con Ligabue. Michael ha prodotto 6 dei 9 (o 8, devo ancora decidere) brani che comporranno il disco e ha suonato anche le batterie lavorandoci nel suo studio a San Francisco.
Michael ti ha aiutato nella selezione dei brani?
Certo...
Dando però nella selezione dei brani un grande peso ai testi, da americano, Michael riusciva a coglierne le sfumature, l’intensità della scrittura?
Proprio perché non poteva cogliere degli aspetti linguistici così sottili Michael è stato prezioso perché ha vissuto la fase di selezione e produzione più dal punto di vista sonoro. E alla fine ci trovava d’accordo sulle canzoni…
Quindi su quelle che oltre a grandi melodie e testi avevo anche buoni suonati, arrangiamenti validi?
È un concetto ancora più profondo. In questa selezione di brani mi sono accorto di come nelle grandi canzoni finisca per crearsi un equilibrio, una coesione tra suono, arrangiamento, parole e melodia che rende tutto coerente e fa sì che anche se non comprendi il testo in ogni dettaglio - come nel caso di Michael - la forza della canzone ti arrivi comunque intatta…
Come hai lavorato all’arrangiamento dei brani che hai scelto di reinterpretare?
Ho adottato due approcci differenti, quasi agli antipodi perché nel caso di alcuni brani ho cercato di mantenere il tutto più fedele possibile all’originale. Lavorando semmai di editing sulla struttura piuttosto che sull’arrangiamento vero e proprio. Nel caso di altri brani, invece, ho letteralmente stravolto il suono e l’arrangiamento, soprattutto dove sentivo riferimenti a pezzi inglesi, americani…
Spiegati meglio?
Per esempio, tra i brani che ho fatto c’è “Vincent Price” di Faust’O. È una grande canzone: i testi sono di un paroliere straordinario, Oscar Avogadro e alla chitarra c’è Alberto Radius che ha anche co prodotto Poco Zucchero, il disco che la conteneva. Nella melodia di questo brano, sentivo dei forti richiami a una canzone di una band Glam di allora, gli Sparks. Come se attorno all’idea, all’ispirazione della melodia degli Sparks, fosse stato scritto un brano con un suono, un arrangiamento più italiano. Così, mi sono divertito a stravolgere il brano, cucendogli attorno un arrangiamento davvero Glam, come fosse un pezzo dei T. Rex, di Bowie…
Come si sono articolate le registrazioni?
Sono partito dalle batterie che Michael ha registrato a San Francisco.
Le ha incise su chitarra guida che avevi preparato?
No, Michael è stato pazzesco: ha studiato i brani, le strutture e poi ha suonato le batterie da sole, libere con l’unico riferimento del click. Riuscendo comunque a marcare bene tutte le atmosfere, parti e dinamiche del pezzo: strofa, inciso, special…
Ha registrato delle batterie molto particolari: ha usato una vecchia Gretsch, senza riverberi, con un suono asciutto, super classico, un pizzico datato. Ma l’equilibrio tra cassa e rullo era ottimo e il sound sembrava quello di una vecchia batteria funk…
A seguire hai fatto i bassi?
No, sono partito dalle chitarre acustiche che in questo disco sono assolutamente protagoniste. Sui groove delle batterie ho creato una densa stesura di chitarre acustiche che sono diventate lo scheletro di tutti i brani.
Come le hai incise?
Ho inciso le chitarre in stereo, nel senso che ho suonato ogni traccia, ogni parte due volte con due chitarre differenti, eseguendo la stessa identica parte. Questo ha dato un effetto di chorus vero, autentico. Inoltre ho passato entrambe le chitarre per un preamplificatore particolarmente aggressivo che ha dato un pizzico di distorsione. Ne è uscito un suono potente, avvolgente, ruvido. Ho approcciato le acustiche con un’intenzione lontana dall’impiego tradizionale dell’acustica nel pop, dove si fa soprattutto un lavoro di strumming.
Facci capire meglio l’intenzione con cui hai costruito questi muri di acustica?
Michael quando cura una produzione è attentissimo alla parte ritmica. E noi, infatti, partivamo da puro ritmo, groove, le sue sole batterie; così le chitarre acustiche che ci costruivo sopra, spesso partivano dalla ricerca di pattern ritmici che, a loro volta, si incastrassero con quelli della batteria. Un approccio dove l’idea percussiva veniva prima di tutto. Ed è stato impegnativo, perché come spiegavo prima, suonavo su delle batterie vive, senza un riferimento fisso. Da questo punto di vista, l’interplay che abbiamo sviluppato in quasi 10 anni di collaborazione è stato decisivo. Avevo utilizzato un approccio simile nella scrittura ritmica delle parti di chitarra acustica in "Solamente un'ora" un brano del mio disco precedente,
Che acustiche hai usato?
Una Gibson Hummingbird e una Guild F20.
Hai usato accordature standard?
Non solo. Ho anche sperimentato il più possibile con accordature aperte che mi permettessero di suonare nelle prime posizioni con una grande proiezione e apertura sonora.
È la prima volta che, nella tua storia musicale, ritagli un ruolo così importante alle acustiche?
Sì, è la prima volta che sono così dentro la chitarra acustica. E non nascondo che alla vigilia delle registrazioni ero preoccupato potesse rivelarsi particolarmente dura, perché suonare e incidere l’acustica è difficilissimo. Ma alla fine tutto è andato liscio e il risultato sonoro è stato grandioso.
Un tale muro di chitarre acustiche ti ha condizionato nella scrittura e registrazione di parti di chitarra elettrica?
Per forza: la mole di suono di acustiche e batteria mi hanno subito fatto capire che non sarebbero servite delle parti ritmiche tradizionali di chitarra elettrica: ottavi, power chord…ho voluto utilizzare le chitarre elettriche in maniera più sperimentale, per apportare colori, atmosfere…quasi come fossero tastiere…
Quindi non ci sono che sfumature di elettrica: ne hai incise e suonate poche?
No, anzi! Alla fine ne ho incise una quantità pazzesca. Ma trovando soluzioni nuove, sperimentali. Per esempio, nel disco faccio “Monna Lisa” di Ivan Graziani. Li ho usato il wha wha per suonare delle frasi con la scala cromatica che spostano l’atmosfera di tutto il brano e gli danno un sapore quasi psichedelico…
Suonare l’elettrica su quel muro di acustiche, oltre che nella scelta delle parti, ti ha condizionato anche sul suono?
Sì, intanto perché rispetto alle acustiche tutte le elettriche sono state riprese in mono. Poi, come pasta sonora, ho cercato un’estetica diversa dalla mia solita. Io sono uno che predilige i combo, ampli tipo il Vox; invece, in questo disco ho sperimentato con il suono Marshall, le vecchie Plexi. Ho inseguito il sound di chitarra che senti nei vecchi dischi di Eagles e Creedence, con suoni che non sono mai eccessivamente saturi, senza troppo sustain…Forse solo su Buon Compleanno Elvis di Ligabue avevo utilizzato sonorità simili…
Che chitarre elettrica hai usato?
Tantissime, perché ero alla ricerca di sonorità diverse, inusuali. E quindi ho sperimentato ancora con le accordature e con le posizioni, le diteggiature: perché quando hai una parte che funziona, spostarla, cambiarla di posizione ti apre sempre un ventaglio di possibilità creative e sonore interessanti. In questa fase, in studio, ho sperimentato anche molto con il delay, inteso proprio come effetto a pedale, tra chitarra e ampli. L’ho usato per creare – di nuovo – differenti disegni ritmici da incastrare: ottavi, sedicesimi, ottavi puntati…
Hai inciso tutte le chitarre in studio di registrazione?
Buona parte le ho registrate in studio a Bologna, nello studio di Roberto Priori che è anche un valente chitarrista e questo mi offre sempre la possibilità di un confronto, soprattutto in merito al suono…Ma molte chitarre elettriche le ho registrate a casa, nel mio studio. Qui ho fatto soprattutto le chitarre più bizzarre, sperimentali: piccoli interventi che creano suggestioni, parti minuscole che combinate tra loro generano orchestrazioni…lavorare a casa mi ha permesso anche di eseguire un grande lavoro di editing creativo…
Ovvero?
Ho registrato montagne di idee, in giornate differenti. Non appena ho avuto i primi mix con le basi dei pezzi, sono andato a scremare tutte queste idee, passandole in rassegna, assemblandole, spostandole…
Nel tuo disco precedente, “Nero” le tastiere avevano spazi importanti. In questo prossimo disco?
Non sono così presenti ma investono comunque ruoli importanti. A volte rinforzano le parti di basso, altre doppiano i riff di chitarra una cosa molto presente negli arrangiamenti di “Nero”
A proposito di “Nero”, a quasi tre anni dall’uscita qual è il tuo bilancio?
Molto positivo. È un disco che ha venduto e mi ha permesso di rientrare di tutti gli investimenti fatti per produrlo. Inoltre, mi ha fatto suonare moltissimo in giro. È un disco che sento ancora mio, nel quale mi ritrovo nel suono, nella produzione. Tanto che ho voluto che in questo lavoro ci fosse continuità in quel senso. Il successo di “Nero” mi ha spronato a credere in un lavoro come questo che è ambizioso. Tenuto conto poi che si tratta di un album di cover, non avrò nemmeno la possibilità di guadagnare dai diritti. In qualche maniera è un lavoro a fondo perso ma, come ho detto all’inizio, realizzare questo disco era un’urgenza che avvertivo.
In “Nero” celebravi il garage, il beat, un’attitudine musicale molto vicina agli anni sessanta. In questo disco omaggi i primi anni ’80 italiani. Comunque c’è sempre uno sguardo rivolto al passato…
È vero; di sicuro mi lascio condizionare da Michael con il quale condivido questa sensazione che molta musica del passato sia ancora attuale e si presti a una rilettura più moderna. Per me la chiave è proprio questa: rivisitare scenari musicali del passato con inserti e approcci moderni.
E del resto molte delle cose attuali che mi piacciono fanno esattamente questa cosa, ovvero strizzano l’occhio ai classici ma con un piglio moderno. È un’attitudine che trovo anche in certa musica pop italiana attuale che apprezzo: Calcutta, Motta…in Calcutta i riferimenti a Battisti, Elton John e a un certo tipo di musica d’autore, cantautoriale anni ’70, inizio ’80 sono palesi. Eppure sono vissuti con un approccio, un respiro moderno…
Quando uscirà il disco?
Spero nei primi mesi del prossimo anno.
Non ti ho ancora chiesto come si intitolerà…
Ah, chiedi pure. Tanto non ci ho ancora pensato.
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