Ian Hunter, leggenda rock amata da Bowie: unica tappa italiana
di redazione [user #116] - pubblicato il 12 settembre 2017 ore 15:00
Quando il nome di un musicista si intreccia a quello di decine di altri, in uno gioco di influssi, collaborazioni e riconoscimenti che si estendono su sei decenni di storia del rock, allora è sicuramente il nome di una figura seminale nel proprio ambito artistico. Ian Hunter è un'icona del Rock che ha collaborato, tra i tanti, con Bowie, Queen, Jaco Pastorius ed è stato citato come un'influenza decisiva da band come Clash e Oasis. Il prossimo 16 ottobre, l'occasione imperdibile di vederlo live nell'unica data italiana a Mezzago (MB).
La fama di Ian Hunter è indissolubilmente legata alla band che ha capitanato per cinque anni, i Mott the Hoople e con i quali ha raggiunto il successo all’inizio degli anni ’70. Ma, a ben pensarci, i Mott the Hoople non rappresentano che una breve benché fulgida parentesi nella carriera del cantautore britannico.
Nato nel 1939 da una famiglia della working-class inglese, Hunter ha seguito tutte le tappe del più tradizionale percorso della vecchia guardia musicale: il colpo di fulmine per il rock’n’roll ascoltato su Radio Luxembourg, i primi approcci con la chitarra, una lunga gavetta fatta di militanza in svariate band tra gli anni ’50 e ’60 e di un’intensa attività live (anche all’estero, ad Amburgo, sulle orme dei Beatles), l’affinamento delle capacità compositive, il trasferimento nella Swinging London, i primi contatti con alcuni dei nomi destinati al grande successo, come Mick Ronson (poi chitarrista degli Spiders from Mars di Bowie) e tanti sogni da realizzare. Per non farsi mancare nulla (e per mantenere moglie e due figli), mentre tenta di sfondare lavora anche come giornalista e come songwriter per gli editori Francis, Day & Hunter. La grande occasione gli si presenta nel ’69 con le sembianze di Guy Stevens, influente talent scout, produttore e manager che collaborerà, tra gli altri, con Rolling Stones, Who, Free, Procol Harum e Clash. Stevens ha per le mani i Silence, una band promettente alla quale manca un frontman capace e carismatico. Hunter, con una cascata di riccioli biondi, occhiali da sole di ordinanza e una presenza scenica da consumato rocker, è al posto giusto. La band cambia il nome in Mott the Hoople, dal titolo di un romanzo di Willard Manus uscito tre anni prima, e il resto è storia.
Una vicenda atipica, la loro. Nonostante la buona accoglienza di critica e pubblico, le vendite dei loro primi dischi si rivelano deludenti. Nel ’72, dopo un concerto disastroso in Svizzera, si sciolgono ma a uno dei loro più grandi fans, David Bowie, la cosa proprio non va giù. Offrendo loro il suo brano “All the Young Dudes” e producendo il loro album dallo stesso titolo, Bowie li porta finalmente al grande successo commerciale (e nella leggenda).
La band cavalca l’onda del mainstream per un paio di anni e tre album, inanellando altri successi come “Golden Age of Rock’n’Roll”, “All the Way From Memphis”e “Saturday Gigs”, nel tumulto della rock stardom anni ’70, peraltro perfettamente incapsulato proprio nel libro di Hunter “Diary of a Rock’n’Roll Star”. La band si disgrega con l’abbandono del chitarrista Mick Ralphs (che entra nei Bad Company e viene sostituito per un periodo da Mick Ronson) e del tastierista Verden Allen. La veste glam, che non rispecchia affatto la vera natura artistica del gruppo, ha finito per soffocarli.
Anche Hunter lascia la band e avvia una prolifica attività solistica nel ’75, forte della collaborazione di Mick Ronson, con cui lavora quasi fino alla morte di quest’ultimo, nel ‘93. I suoi 14 dischi in studio (l’ultimo, “Fingers Crossed”, è del 2016) testimoniano dell’incessante attività compositiva - fatta eccezione per una pausa di qualche anno tra gli ’80 e gli anni ’90 - e della sua evoluzione da un rock più sanguigno e grintoso a una vena più introspettiva con il passare degli anni. Una produzione, la sua, arricchita da collaborazioni con musicisti del calibro di David Sanborn, Jaco Pastorius, Queen, John Cale, Earl Slick e la E Street Band di Bruce Springsteen, solo per nominarne alcuni. Hunter viene unanimemente considerato uno dei grandi cantautori della sua generazione e l’influsso del suo songwriting negli anni è stato riconosciuto da artisti diversi come Clash, Sex Pistols e Oasis. Moltissimi ne hanno anche realizzato delle cover (Def Leppard, Pointer Sister, Bonnie Tyler, Blue Oyster Cult, Brian May, Shaun Cassidy, Alejandro Escovedo). I Queen lo hanno voluto al fianco di David Bowie e di Mick Ronson al Freddy Mercury Tribute del ’92 e Ringo Starr lo ha voluto nella sua All Starr Band nel 2001.
Hunter ha preso parte a due reunion con i Mott, nel 2009 e nel 2013, registrando dei sold out in venue come l’Arena 02 di Londra. Del resto la band era famosa proprio per i suoi live infuocati e oggi, a quasi 80 anni, Hunter non si risparmia affatto. Il prossimo 16 ottobre si esibirà al Bloom di Mezzago con la Rant Band, unica data italiana e senza ombra di dubbio un’occasione irripetibile per vedere sul suolo italico un artista come pochi.