di Gianni Rojatti [user #17404] - pubblicato il 07 ottobre 2020 ore 12:00
C’è un pezzo che credo sia perfetto per capire il peso e l’entità del genio di Eddie Van Halen, il più grande chitarrista elettrico della storia del rock. Ed è un pezzo inusuale da suggerire, visto che si tratta di una sorta di capriccio suonato su una chitarra acustica. Il brano è “Spanish Fly” ed è un volo pindarico di sola chitarra, di poco meno di un minuto, che si libra tra i solchi pesanti e incandescenti dell’hard rock di "Van Halen II", secondo album della band del 1979.
La storia vuole che Eddie Van Halen, ospite una sera a casa del produttore artistico Ted Templeman, si fosse ubriacato e messo a giocare su un’acustica. Sconvolto da quello che usciva dalla sei corde, il fonico produttore decise di inserire quella perla nel disco in lavorazione. In quel minuto Eddie esegue sulla chitarra una prova di virtuosismo che lascia senza parole, supportato da una musicalità e un groove che trasformano quella che poteva essere una semplice dimostrazione di abilità in una perla musicale, una composizione autentica e finita. In quel minuto di libidine musicale e chitarristica sotto le dita di Eddie fluttuano quelle scale e quei fraseggi che negli anni a seguire sarebbero stati la ragione di esistere di una generazione di chitarristi: Paul Gilbert, Vinnie Moore, Jason Becker, Richie Kotzen, Greg Howe…
Eddie suona “Spanish Fly” con tecnica cristallina e aliena, con precisione e velocità disarmante rivelando un virtuosismo inarrivabile al cui confronto, molti altri suoi celebri assolo, paiono non mostrare che la punta dell’Iceberg del suo potenziale tecnico. E allora, quello scherzo suonato su una Ovation accordata due toni sotto, rivela che per Eddie la priorità non è mai stata la chitarra, il chitarrismo, ma servirsi della sua chitarra ammaliante per scrivere e suonare del grandissimo rock. “Spanish Fly” ci rivela che questo ragazzo avrebbe potuto sfornare dei dischi strumentali da far vedere i sorci verdi a ogni altro suo emulo o successore. Ma per Eddie la preoccupazione, invece, era fare musica per tutti, canzoni rock da consumare in mega concerti negli stadi, nelle arene, da ballare in pista nelle discoteche e da ascoltare a tutto volume in auto, sfrecciando con i finestrini abbassati. E qual era la magia? Che in questo rock frizzante, colorato, irriverente e, perché no, leggero e di facile consumo c’era comunque una chitarra che nessun nerd potrà mai nemmeno sperare di suonare con quella vivacità, vigore, sensualità e – soprattutto – tecnica.
Eddie Van Halen allora, non era solo questo geniale inventore e innovatore dello strumento ma era un artista che aveva costruito attorno alla sua sei corde alata e incantevole un mondo musicale coerente con un look, un suono, un’estetica che avrebbero segnato le generazioni a seguire.
Quello che mi rattrista è che in un processo degenerativo inarrestabile, dopo Van Halen la chitarra, quella chitarra, con Floyd Rose, humbucker al ponte e frasi in tapping, è diventata sempre di più una cosa, appunto, da rivincita dei nerd. Non un’espressione musicale in armonia con la musica circostante, con i tempi correnti ma una pratica anacronistica da compiere in solitudine in dischi strumentali astrusi o standosene sciatti, davanti a una web-cam, come in una chat erotica. Invece il tapping di Van Halen era un fuoco d’artificio che scaturiva al culmine di un rituale dove si consumavano grandi canzoni, pubblico, amplificatori a tutto volume e si vestivano pantaloni rosa fluo, sfoggiati su un fisico da atleta e con sempre, un sorriso spavaldo ma gentile.