Liuteria raffinata, suoni coerenti con gli standard d’epoca, trattamenti d’invecchiamento talmente curati da rendere difficile distinguere una replica da un pezzo d’altri tempi. Stando alle intenzioni del dipartimento Custom, le moderne reissue Gibson non sono semplici tributi agli strumenti d’epoca, ma dei veri e propri cloni.
Le dimensioni e le misure delle chitarre prodotte dal Custom Shop sulle impronte del passato sono ricavate per mezzo di scansioni laser su strumenti originali d’epoca. Allo stesso modo, i materiali ricercano lo storicamente corretto in maniera spasmodica. Vengono ricreate le plastiche mediante particolari processi chimici e si usano colle di origine naturale, coerenti con le lavorazioni del periodo di riferimento. Persino le vernici sono il frutto di studi e analisi sugli esemplari vintage, al fine di ricrearne il punto di colore e le sfumature con un’accuratezza impressionante.
A 25 anni di distanza dalla nascita della serie Historic, l’attuale catalogo di reissue a marchio Custom rappresenta il pinnacolo della ricerca e sviluppo Gibson.
Dal 2021, la collezione riceve il valore aggiunto di un trattamento estetico ancora più accurato. Sotto la direzione di Tom Murphy, artigiano divenuto un riferimento negli anni per l’invecchiamento artificiale degli strumenti, nasce il .
Il Murphy Lab è la ciliegina sulla torta in uno dei progetti di chitarre reissue forse meglio riusciti degli ultimi tempi. I liutai Gibson realizzano chitarre dall’indiscusso livello qualitativo, modellate sulla scia di precise edizioni d’epoca al fine di ricostruirne stile, suonabilità e sonorità. Il mojo di una chitarra vintage è difficile da replicare in uno strumento nuovo di fabbrica, e qui il ruolo del Murphy Lab è centrale.
La squadra di Tom Murphy ha messo a punto delle esclusive tecniche di invecchiamento che non si limitano al maltrattamento di una finitura e all’ossidazione di un pezzo di metallo, ma riescono a ricostruire fedelmente gli effetti del tempo sotto ogni aspetto, nella composizione e struttura stessa dei materiali che costituiscono una chitarra, con tutto quello che ne consegue.
La padronanza di tali lavorazioni rende possibile un controllo accurato sul livello d’invecchiamento simulato, tanto da spingere il Murphy Lab a proporre il trattamento in quattro diversi stadi di “degrado”.
Attualmente è possibile ottenere quattro livelli d’invecchiamento.
Ultra Light Aged rappresenta la cosiddetta Mint Condition per una chitarra semplicemente perfetta, con una vaga opacizzazione delle finiture come accadrebbe a uno strumento conservato per decenni nella sua custodia.
Le Light Aged presentano solo qualche colpetto e scrostature marginali, inevitabili anche sulle chitarre tenute con più cura.
Heavy Aged ricrea una chitarra suonata con regolarità, ma dalla manutenzione dignitosa. Parte del body mostra il legno sottostante, l’hardware comincia a brunirsi, segno che la chitarra ha servito il suo proprietario per lungo tempo.
Ultra Heavy Aged è il livello più estremo, quello di un esemplare usato e abusato, la chitarra di un professionista pregna di sudore, birra e fumo.
Non semplici graffi, si diceva, e un’operazione simile ha un costo. Ogni stadio d’invecchiamento pesa sul cartellino, e dal primo all’ultimo livello passano circa 2mila dollari.
Abbiamo voluto guardare da vicino la più avanzata delle lavorazioni Custom, la , per saggiare quanto del trattamento possa effettivamente ingannare i sensi e lasciar credere che tra le mani si ha un vero pezzo d’altri tempi.
Lo abbiamo fatto con la collaborazione del Centro Chitarre di Napoli, che ci ha messo a disposizione ben quattro Les Paul appartenenti alla stessa serie.
Quelle prese in esame sono quattro , cioè quello che è ricordato come il punto più alto della produzione di Gibson Les Paul, o quantomeno la fase più desiderata dai collezionisti.
Il 1959 rappresenta un momento di piccole rivoluzioni in casa Gibson.
È nel 1959 che il manico grosso e tondeggiante conosciuto come Fat avvia la sua transizione verso lo Slim Taper che caratterizzerà la produzione degli anni ’60. Così le Les Paul ispirate al ’59 hanno un manico sì consistente, ma non esagerato, con una C da manuale che riempie la mano ma si prospetta già sensibile alla necessità del musicista di affrontare lunghe sessioni senza avvertirne eccessivamente la fatica.
I tasti Medium Jumbo assecondano le necessità dei chitarristi più giovani, che preferiscono i riff e gli ampi vibrati del rock n roll ai comping elaborati del jazz.
Tutto è ricreato dal Custom Shop con misure e componenti storicamente corretti, e con materiali di prima scelta.
Il body delle repliche è costituito da un unico blocco di mogano, con sopra due tavole di acero fiammato. Il manico, rigorosamente in mogano, è innestato con tenone lungo ed è abbinato a una tastiera in palissandro. Tutto intorno, un binding in plastica Royalite a strato singolo tende al giallino con una tinta irregolare, capace di emulare in modo credibile gli aloni che possono realisticamente comparire nel tempo.
L’elettronica è del livello che ci si aspetta da una produzione Custom. Gli humbucker sono due Custombucker in alnico 3, appositamente progettati seguendo specifiche e sonorità di esemplari originali d’epoca e senza paraffinatura, com’era in uso nel 1959.
Due volumi e due toni CTS garantiscono una resa di primo livello, insieme ai condensatori carta e olio dalla risposta organica e naturale.
L’attenta operazione di invecchiamento si dimostra fin da subito intelligente, sensata.
L’usura non è casuale, e viene applicata in misura maggiore nei punti naturalmente più esposti.
È il caso del tacco del manico, che si scrosta quando le dita vanno per decenni a cercare i fret più alti, il manico stesso è profondamente segnato dai tasti che vanno dal terzo circa fino al 12esimo, con il bordo inferiore ancora più provato a causa del palmo che continua a strofinarvi contro.
Il bordo del top appare più provato in corrispondenza dell’avambraccio, e l’hardware è maggiormente invecchiato nella parte superiore, dove posa il palmo, meno al di sotto dove le dita raramente si poggiano.
In un trattamento come il Murphy emergono dettagli profondi, che saltano all’occhio a chi ha già visto altri esemplari d’epoca in passato. È difficile dire come il buon Tom abbia messo a punto una tecnica simile, ma è riuscito a imitare con una fedeltà ragguardevole il modo in cui le vernici cambiano la loro stessa composizione nel tempo.
Qui si capisce quanto la finitura nitro sia sottile, eppure forte. Sulle repliche appare come un vetro sottilissimo, perfettamente aderente al body, crepato, o come una mela caramellata che si segna su tutta la sua superficie dopo il primo morso, screpolandosi e dando l’idea che ogni frammento stia lì lì per staccarsi, ma senza che questo accada mai.
Al di là dei gusti e delle discussioni sulla legittimità delle finiture aged, bisogna riconoscere la bravura di Murphy. La vernice non appare banalmente graffiata o picchiettata. L’effetto è quello di uno strato realmente “asciugato”, cotto ed essiccato dal tempo, reso rigido e per questo anche prono alle fratture che si ramificano tutto intorno a ogni colpo.
Nell’analizzare il trattamento del body, è emersa una piccola curiosità: nessuno dei presenti è riuscito a individuare le iniziali di Tom Murphy incise sul top, solitamente celate sotto forma di crepe nella zona compresa tra i potenziometri e il binding. Il sospetto è che, con la nascita del Murphy Lab, non tutte le chitarre riportino la firma del “titolare”.
L’invecchiamento non si ferma alla vernice, e i legni che arrivano in superficie non sono immuni ai segni del tempo. Così l’acero che giunge a contatto con l’aria è scuro, color cenere, come impregnato da decenni di polvere e sudore, una tonalità che non può venir via semplicemente ripulendo una vecchia chitarra, ma diventa parte della sua trama.
Anche il mogano del body, grattato dalla borchia di una cintura immaginaria, mostra una grana larga, come la pelle rugosa di un anziano, e più spenta nei toni rispetto al classico rossiccio di un mogano fresco di taglio.
La chimica gioca un ruolo primario nella formula di Murphy. Accade per la vernice, per l’hardware e anche per le plastiche, che sono realizzate in butirrato di acetato di cellulosa, una plastica dai toni crema che si sporca e si segna a ridosso delle parti normalmente soggette a usura come la base per lo switch. Strano a vedersi, appare invece in ottimo stato di conservazione il battipenna, come se fosse stato montato solo di recente su una chitarra vecchia decenni.
Tale scelta può stranire a una prima occhiata, ma svela una precisa filosofia progettuale: le Murphy Lab devono apparire vecchie, forse anche polverose - ed è impressionante come restituiscano la sensazione in modo genuino, quasi al punto da sentirle “sporche” tra le braccia - ma devono essere chitarre di qualità assoluta, suonabili e suonanti al top delle loro possibilità. Così le dita devono poggiarsi contro un battipenna dalla superficie regolare, i tasti devono avere la perfezione di una Plek e la tastiera non deve avere le macchie e i solchi di una chitarra malmessa.
Tutto deve rispondere bene sotto le mani, e l’unica concessione è sul retro, a un manico profondamente segnato dal tempo. La Les Paul non è una chitarra per velocisti e ci si può permettere qualche irregolarità, se questa dona al pollice e al palmo quella sensazione inimitabile di una chitarra con una storia, maturata attraverso gli anni. E, se è vero che una chitarra è buona finché fa suonare meglio il suo proprietario, bisogna ammettere che quel feeling trasmette al musicista una precisa impronta, lo spinge a esprimersi con un linguaggio specifico, coerente con lo strumento che ha tra le mani. Ed è esattamente quello che ci si aspetta da una gran Les Paul d’altri tempi.
Il relic spacca da sempre a metà la platea dei chitarristi. Lo si ama o lo si odia, e chitarre del genere possono lasciare sempre quell’amaro in bocca di un falso vintage, di un “vorrei ma non posso”. Nel caso di una Les Paul del 1959, sono davvero in pochi a “potere”, e un lavoro come quello del laboratorio Custom si dimostra capace di regalare emozioni davvero singolari, che ogni appassionato dovrebbe concedersi almeno una volta nella vita.
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