Un’affermazione forte, visto e considerato il glorioso passato della formazione di Seattle e i tanti dischi sfornati nel corso di circa trent’anni. 12 album, numerose pubblicazioni live, e poi ancora edizioni speciali, cofanetti, e molto altro.
Ma come fare per potersi districare, senza perdersi, all’interno di questo dedalo di uscite, canzoni e concerti? Come poter arrivare quantomeno preparati ad affrontare con cognizione di causa questa nuova fatica in studio?
Le vie sono molteplici. Scegliamo, per esempio, di partire cronologicamente e dunque di ripercorrere il viaggio dei Pearl Jam cominciando con la disamina dei capitoli più importanti della loro storia, i cui titoli - Ten, Vs., Vitalogy - campeggiano tra gli scaffali di ogni appassionato di musica a stelle e strisce che si rispetti, e non solo. Tra i solchi di quei dischi erano presenti gli stessi identici fattori che lo stesso Vedder, oggi, indica - secondo una linea di rigorosa continuità - in Dark Matter: “un’onda emotiva tra ansia, rabbia, tristezza, gioia, rimpianto”. Termini, questi, già cari al gruppo nel 1991, quando il 27 agosto fu dato alle stampe il celebre Ten, con quelle dita intrecciate in copertina e una scaletta intrisa di capisaldi: da “Even Flow” alla torrenziale “Alive” (ricordate l’indimenticabile assolo marchiato Fender Stratocaster ‘59 di Mike McCready?), dalla conturbante “Jeremy” alla sing-along ballad “Black”.
Per non parlare della rabbia che imperversa su Vs. (1993) - sempre attuale per melodie, arrangiamenti, freschezza di suono - oppure della summa di creatività e rigore contenuta in Vitalogy, 1994: fotografia di cinque musicisti coerenti, schierati, in bilico costante tra forza e dolcezza, pugni e carezze.
Gli anni ’90 dei Pearl Jam - No Code (1996) e Yield (1998) compresi - sono stati questo: una detonazione, un’ascesa rapida e incontrollata, un progressivo affrancamento dalla (limitante) etichetta grunge per abbracciare l’intero panorama del rock, sfumature e sottogeneri compresi. In quel decennio, la band ha posto le basi programmatiche della propria ricerca sonora e del proprio impegno, civile e politico, evolvendosi e di rado sbagliando un colpo.
Non è stato esattamente così per quel che riguarda il passaggio ai Duemila con battute transitorie come Binaural e Riot Act, risalite interessanti quali il notevole Pearl Jam, disco omonimo del 2006, con tanto di memorabile scia di concerti italiani e splendido corollario in forma di documentario girato dal fotografo Danny Clinch, il dignitoso seguito dal titolo Backspacer (2009) fino ai più recenti, anonimi, Gigaton e Lightning Bolt.
La strada, dunque, stando a quanto le nostre orecchie hanno potuto ascoltare e ai dati in nostro possesso, è iniziata ingranando la marcia più alta possibile per poi, da un certo punto in avanti, mostrare svariati rallentamenti, se non proprio un assestamento generalizzato su cliché e modus operandi iper consolidati, caratterizzati da perdite di mordente, mancanza di colpi di coda e pochi, pochissimi brividi. Che il pluripremiato Andrew Watt - già osannato dalla critica e assoldato da mostri sacri che vanno da Ozzy Osbourne ai Rolling Stones - sia riuscito nel miracolo?
Che il buon Eddie abbia davvero ragione? Dark Matter è ora fuori per dimostrarlo… o meno. |