Vorrei partire da una domanda che sarà poi guida per il proseguo del mio scrivere: chi di noi “ha tempo”, ma soprattutto la voglia, di dedicare 40 minuti del suo “prezioso tempo” in ”religioso silenzio”, cuffie di buona qualità sulle orecchie, cd originale per non perdere neppure una frequenza, un buon lettore stereo, di sedersi ad ascoltare IL CD?
A causa di un concorso di fatti e accadimenti, non sono un sociologo quindi non mi metterò ad analizzarli, si è persa la dimensione dell’ascolto, quello serio, quello vero, che permetteva una crescita critica, nel senso positivo del termine, determinando confronti fra gli uditori.
Dopo l’avvento, negli anni ’80, dei Fast Food che ci permettevano di non perdere tempo per mangiare in pausa pranzo (ma sarà poi vero viste le code interminabili?), questa filosofia moderna si è spostato anche su altri campi, coinvolgendo pure la musica.
In un intervista al noto regista e comico Carlo Verdone, appassionato cultore della musica rock che grande importanza riveste nei suoi film, questi denunciava : “… c’era un rapporto più intimo con la musica, anche magari con un brano lento che usavi per ballare ma in fondo era una modo per condividere un “lento” che ti piaceva …”
In quest’ epoca dove il tempo è un bene più prezioso dell’aria che respiriamo, dove non abbiamo tempo per nulla, ma tutto deve essere incastrato e se accade un contrattempo, parola che suscita terrore nei maniaci delle agende, il mondo sembra caderci addosso, in questo tempo dove ogni secondo deve essere riempito illudendoci che ciò è per noi, altrimenti ci si annoia, (provate ad ascoltare in maniera seria il testo de “Le tagliatelle di nonna Pina”) ritagliarsi uno spazio per l’ascolto di musica è una bestemmia, ma l’uomo ha bisogno assoluto di musica, non può farne totalmente a meno e quindi grazie alla tecnologia sempre più miniaturizzata, si sono creati strumenti audio in grado di essere facilmente trasportati , leggi I-Pod, e proprio perché la qualità non conta, ma di più la quantità, si sono creati linguaggi software in grado di comprimere a tal punto le frequenze audio da far stare migliaia di pezzi all’interno del nostro lettore, il tutto a discapito della qualità del nostro ascolto, ma a soddisfare il nostro imperante bisogno di stordimento ed estraniazione rispetto a ciò che ci circonda. Proprio per questa visione della musica la vittoria tra i Giovani e i Big di due canzoni che non necessitano di un ascolto attento per essere comprese, ma risultano immediatamente memorizzabili e facili, non mi stupisce, non mi porta affatto a gridare all’inciucio Mediaset-Rai, ma consolida in me la convinzione che oramai la musica è solo svago, nel senso peggiore del termine, non più parte della cultura.
In un paese dove questa viene vista solo come mezzo di svago, e di lucro visti i costi di concerti e CD, oppure di snobismo, dove non si insegna nelle scuole proponendo agli studenti gli strumenti per analizzare e conoscere, ma si lascia questa possibilità al settore privato, non ci si deve stupire se “la maggioranza degli italiani” ha votato per Marco Carta perché sempre più oramai, nonostante il nome, il festival di Sanremo non è più il festival della canzone italiana, la cui accezione non è più chiara neppure agli addetti ai lavori, ma del cantante italiano, che vince in base alla simpatia che sa generare, alla sua capacità di stupire o di bucare lo schermo non certo per le sue attitudini canore, per la sua capacità interpretativa e/o di autore o per la canzone che ha portato in gara.
Concludo con una considerazione sul festival, non lo chiamerei più festival della canzone, ma del costume italiano.