di olegario_santana [user #20033] - pubblicato il 07 ottobre 2012 ore 15:00
Tre chitarristi come Jimmy Page, The Edge e Jack White sono come specchi delle proprie epoche. Guardarli mentre si confidano e scambiano idee tra di loro può far ragionare e, talvolta, fa trovare impressionanti somiglianze.
L’altra sera ho fatto tardi. Subito prima di andare a dormire ho trovato su YouTube un interessante documentario chiamato It migth get loud, il quale ritrae nelle proprie esperienze riguardanti la musica, e in una condivisione dei loro riff, tre personaggi importanti del rock degli ultimi quarant'anni: Jimmy Page, The Edge e Jack White.
Devo dire che questa mia riflessione nasce da due considerazioni. La prima è stato un comento di qualche utente di YouTube, il quale definiva i tre chitarristi così: la leggenda, il chitarrista ricco e il genio.
L’ho trovato molto divertente e quasi azzeccato (anche se tutti e tre devono essere abbastanza ricchi).
Non voglio entrare nel merito del documentario, ma esprimermi sulle impressioni che mi ha provocato vedere e sentir parlare questi tre personaggi delle loro esperienze.
Sinceramente Jimmy page mi è sembrato assolutamente straordinario. Con la chitarra in mano sembra trasportato in un’altra dimensione, il suo approccio è viscerale, muscolare, lo si vede godere. È come se il tempo che ha vissuto, quel tempo colletivo, abbia fatto di lui qualcosa di eterno, generico, generale, pubblico.
White invece sembra non potere farne a meno, è proprio l’immagine di una rivincita sulla miseria, nella figura del tipo della porta accanto che è in grado di tirare fuori un mondo enorme e colorito solo se "travestito" da rock star. Ha vissuto la sua passione quasi come una colpa, come un obbligo, come qualcosa più forte di lui, inarrestabile sentimento.
E arrivo a The Edge, il personaggio che più mi ha sorpreso. Costui è, in un certo senso, un musicista solitario, quasi triste, forse veramente figlio del suo tempo, dell’isolamento della chiamata post modernità. Il suo approccio è quasi ingegneristico, una costruzione del suono minuziosa, ossessiva, ma credo solitaria, come solitario è stato il suo tempo. Lui mi fa pensare a noi, alle nostre pedaliere, alle nostre stanze, alla nostra continua ricerca del "pedale".
Page mi fa venire quella sensazione di una epoca di scoperte, dove il tutto veniva vissuto quasi all’aperto, in condivisione con gli altri, c’era un mondo nuovo per tutti.
White, mi sembra quasi un ritorno a quel mondo di Page, ma in un scenario quasi apocalittico (basti pensare a Detroit) dove la musica è salvezza, ma dove la musica è anche il fiorire di una mente irrequieta, instancabile.
The Edge invece mi lascia perplesso, anzi, quasi triste. È come se il suo suono, la sua ricerca di controllo fosse una rivincita verso un mondo incontrollabile, dal quale ci si nasconde in privato (ma con vista al fiume), a discutere con se stessi, a macinare le proprie piccole fissazioni instancabilmente. E nonostante cio, a fare belle musiche.