di Gianni Rojatti [user #17404] - pubblicato il 22 luglio 2013 ore 14:15
“Culture Clash” fotografa la band in un momento di grande freschezza e vivacità creativa. Tant’è, che a convincere di questo album è proprio la scrittura. Canzoni e arrangiamenti traghettano l’album ben oltre l’esile canovaccio "groove- tema –assolo" di tanta jazz e fusion. E' il vero disco di una band che gira il mondo terrorizzando tutti i musicisti del pianeta con concerti mozzafiato.
“Culture Clash” è il secondo album degli Aristocrats, trio strumentale composta da Guthrie Govan Marco Minneman e Bryan Beller. Al momento la band è, probabilmente, l’ensemble musicale tecnicamente più evoluto e musicalmente coraggioso presente al mondo.
Spesso si sono viste formazioni stellari, super gruppi allestiti da grandi virtuosi ma, altrettanto spesso, questi esperimenti non sono andati al di là di un album in studio e poche, pochissime, esibizioni live. Ma gli Aristocrats sono una vera e propria band che da un paio di anni gira il mondo spassandosela a terrorizzare tutti i musicisti del pianeta con concerti mozzafiato, sorretti da un’interplay eccezionale, virtuosismi e improvvisazioni folgoranti e stralunate.
“Culture Clash” fotografa la band in un momento di grandissima energia, freschezza e vivacità creativa. Tant’è, che a convincere di questo album è proprio la scrittura. Canzoni, strutture, arrangiamenti che traghettano l’album ben oltre l’esile canovaccio "groove- tema –assolo" di tanta musica jazz e jazz rock. Dopo lunghissimi tour e centinaia di concerti i tre musicisti hanno imparato a conoscersi alla perfezione e, innamorandosi l’uno della follia musicale dell’altro, si sono avvicinati alla composizione di questo album senza inibizioni, divertendosi a giocare coi generi musicali e mescolandoli furiosamente tra loro. E’materiale tosto che diverte ma anche impegna l’ascoltatore. Un reperorio che senza l’ironia e il piglio dissacrante con cui gli Aristocrats suonano potrebbe risultare cervellotico e ostile ma che i tre riescono a far scivolare fluido. Persino i virtuosismi più sfacciati, spudorati e persino gratuiti, risultano irresistibili e strappano un sorriso. Ripercorriamo l’album in una veloce carrellata canzone per canzone.
I tre chiariscono di essere lontanissimi dalle tradizionali sonorità jazz, progressive e fusion. E aprono l’album con un brano che sconfina addirittura nel pop e nella dance, trainato da una chitarretta in levare che strizza l’occhio ai Police. E ci sono ancora i Police nelle chitarre chorus che portano a deliziose aperture melodiche sotto gli assolo di Govan. Sovra incisioni e arrangiamenti tradiscono una cura negli arrangiamenti e nella produzione che non era presente nel primo album.
Già nel primo assolo del disco Govan chiede tutto alla sua Charvel; e suona quello che gran parte della comunità chitarristica mondiale inizierà a studiare tra qualche anno. Inarrivabile.
Il pezzo si apre con ombroso incedere progressive che sviluppandosi si fa sempre più minaccioso e fracassone. Poi succede di tutto: blues, fusion, aperture melodiche, deflagrazioni shred, stop, obbligati e improvvisazioni. Uno spaccato sulla follia musicale degli Aristocrats e una magica prova dell’irrequietezza della chitarra di Govan, autore del brano.
Disarmante esercizio di stile dei tre, che si divertono a fare i cazzoni e si cimentano in un brano a metà tra swing, rock a billy, old jazz trainati dal walking bass inarrestabile e granitico di Beller. I botta e risposta tra Govan e Minnemann sono allucinanti. Poi arrivano gli assolo: prima Govan e poi Beller. Il timing, l’aggressività della pronuncia, la chiarezza nell’esposizione di ogni nota suonano come quelle di jazzisti che ascoltano i Pantera.
Gli Aristocrats giocano a fare i Red Hot Chili Peppers. Beller ha un grovve con non ce n’è per nessuno e trascina il brano con un suono gigantesco, fiero e fangoso assieme. Il groove è scandito da Govan che suona un tema cretino con un timing allucinante e slide impossibili, seguito da tappeti di accordi con suono crunh e un sacco di delay. Seguono unisoni e ostinati furiosi. Di colpo, con suono scarno da trio funky rock, i tre suonano cose da far impallidire i Dream Theater.
Magicamente Zappiano! Spigolature e ostinati progressive, alternati a inattese aperture reggae. E’uno dei brani più scritti e arrangiati del disco, zeppo di obbligati che lasciano spazio a Beller, protagonista in apprezzabilissime digressioni solistiche. Govan suona un assolo che gli sarebbe valso di sicuro un posto da titolare nella band di Zappa. Le sue plettrate alternate accarezzano linee ritmiche e melodiche emozionanti e ridefiniscono gli standard del solismo moderno.
Immaginate di mettere un microfono nel reparto batteria di un negozio e registrare cosa succederebbe a una prima scossa di terremoto. L’intro di questo brano, costruito sul solo Minneman, suona così. Seguono atmosfere inquietanti e stralunate costruite su un lavoro sapiente di leva, riverbero e voicing sinistri di Govan che valorizzano le deliziose schizofrenie batteristiche di Minnemann. Beller fa da collante. Perfetta sintesi della filosofia degli Aristocrats: Govan e Minnemann due furetti impazziti, tenuti a bada e guidati da un saggio e minaccioso leone, Beller. Tema e assolo del brano tradiscono un’intesa che va oltre il semplice interplay:
Solida rock fusion con massicce iniezioni funk. Uno degli episodi solistici più esaltanti di Govan. Nella prima parte dell’assolo Guthrie esaspera l’ascoltatore con una tensione ritmica di fraseggio che fa di tutto per non sedersi mai sul tempo; poi lo delizia con aperture melodiche struggenti. Quindi lo finisce a sciabolate di shred.
E’ la digressione metal del disco. Beller e Minneman ci tengono a ricordarci che hanno suonato rispettivamente con Steve Vai e Necrophagist e così imbastiscono un groove che farebbe venir voglia di chiamare l’esorcista. Ma ci pensa Govan a sdrammatizzare l’atmosfera con un buffo tema country suonato a chitarra clean. Poi il brano procede, pesantissimo, tra singhiozzi zappiani e assoli furiosi di Govan fino a un’onirica apertura tra il mistico, l’indiano e il Vaiano con Beller in assolo. Ancora violenza metal, unisoni e acrobazie batteristiche di Minneman fino al finale.
Riabbraccia le atmosfere più rarefatte e aperte del primo album anche se con uno spessore compositivo decisamente più articolato.
Tutta costruita sul lirismo della chitarra di Govan che gigioneggia tra spunti bluesy, armonici che non pensavo nemmeno esistessero, accordi accarezzati con la leva e shreddate selvagge.