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Ci mettiamo la firma: storia breve delle chitarre signature
Ci mettiamo la firma: storia breve delle chitarre signature
di [user #32606] - pubblicato il

I chitarristi si dividono sempre in due davanti a una chitarra signature. I fan del musicista che le dà il nome la ameranno, gli altri potrebbero pensare a una mera operazione commerciale, ma un terzo punto di vista si fa strada quando si approfondisce la storia del fenomeno signature.
I chitarristi si dividono sempre in due davanti a una chitarra signature. I fan del musicista che le dà il nome la ameranno, gli altri potrebbero pensare a una mera operazione commerciale, ma un terzo punto di vista si fa strada quando si approfondisce la storia del fenomeno signature.

Le chitarre signature... quante ce ne sono, belle, agognate, luccicanti sulle rastrelliere dei negozi.
Aiutano noi chitarristi a suonare come i nostri idoli o servono alle case costruttrici a vendere di più?
Non affrettatevi a rispondere che sono utili solo a svuotare le nostre tasche e ad arricchire l’industria musicale. Forse entrambe le risposte possono aver un fondo di verità, almeno in parte.

Fino a non molto tempo fa, il fenomeno era molto semplice: un chitarrista si affermava e, una volta ottenuto un certo seguito, il suo strumento veniva immesso sul mercato, il più possibile identico all’originale, compatibilmente con le necessità produttive in larga scala.
Accanto a questo fenomeno, oggi accade anche (forse più spesso) il contrario: le case costruttrici si accaparrano questo o quel chitarrista, talvolta convincendolo a strappare a suon di dollaroni i contratti di endorsement già sottoscritti con i concorrenti, gli costruiscono su misura uno strumento e poi lo piazzano nelle vetrine dei negozi, di fronte alle quali noi cominciamo a sognare e a fare due calcoli, sperando che il prezzo dell’oggetto del desiderio non sia esposto perché le mogli sono sempre in agguato (parlo per gli sposati, ovviamente).
A scanso di equivoci e di falsi moralismi, premetto che personalmente non ho nulla contro i musicisti che "firmano" le proprie chitarre per incrementare il loro reddito. Fa parte del business e per loro la musica, oltre che essere una passione (si spera), è la professione. Quindi, ritengo comprensibile e giusto che un chitarrista di livello scelga il proprio strumento anche in ragione degli sponsor.
Così come credo rientri nelle normali dinamiche di mercato che un’azienda offra a un chitarrista di entrare nei propri ranghi.

Ho letto recentemente, su alcuni siti, di gente che urlava al tradimento per il passaggio di Kiko Loureiro all’Ibanez o di chi si strappava i capelli perché Guthrie Govan aveva scelto di imbracciare una Charvel al posto delle sue sensuali Suhr. Gli integralismi non mi piacciono e cerco ancora di ascoltare i chitarristi per come suonano, non per con che cosa suonano (oltretutto, credo che la maggior parte dei nostri eroi suonerebbe divinamente anche con lo stendibiancheria della nonna).
Con altrettanta chiarezza devo dire che alcune operazioni di puro marketing non mi sono mai piaciute. Per tutte, cito il caso della Fender Stratocaster Claudio Baglioni. Ecco, questa è un’operazione che non mi piace, semplicemente perché Baglioni non è un chitarrista.
Ma veniamo alle origini. Quando sono nate le signature?

Il proliferare di chitarre "battezzate", ormai prodotte anche da liutai artigiani, mi ha incuriosito e sono andato a caccia di informazioni e notizie perché il mio amore per lo strumento mi porta anche a cercare di conoscerne la storia.

Ci mettiamo la firma: storia breve delle chitarre signature

La voglia di possedere la chitarra del proprio beniamino è nata non appena i grandi chitarristi hanno cominciato a guadagnare fama. Già agli inizi dell’800 alcuni liutai crearono strumenti per i grandi solisti dell’epoca, vendendo anche alcuni esemplari di quelle chitarre con il nome del chitarrista di riferimento scritto sull’etichetta interna alla cassa.
Ma non si può parlare ancora di chitarre signature vere e proprie, sia per il numero limitatissimo di strumenti prodotti, sia per la dimensione assolutamente artigianale dell’attività.
Per parlare di chitarre signature dobbiamo aspettare gli anni '20 e '30, con il diffondersi del grammofono e l’emergere delle prime celebrità.
Il primo esempio può quindi essere considerato la Gibson Nick Lucas, chitarra acustica prodotta nel periodo in cui Gibson era in competizione con Martin ed Epiphone. Lucas, il cui successo si ampliò anche per l’apparizione in alcuni film dell’epoca, fu un musicista determinante negli Stati Uniti. A lui si devono il "sorpasso" della chitarra sul banjo e il primo disco strumentale per chitarra, dal titolo emblematico: Pickin' the Guitar.

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Negli anni ’30 e ’40 si registrò la tendenza a onorare i maestri di chitarra più celebri o i chitarristi di grandi bande jazz da parte di alcune case produttrici, come Kay, Epiphone e Gretsch, che produssero strumenti intitolati rispettivamente a Roy Smeck, Harry Volpe and George Van Eps (quest’ultimo, per la cronaca, è considerato da molti come l’inventore della moderna chitarra a sette corde).
A metà degli anni ’50, con il diffondersi della chitarra elettrica, il fenomeno delle signature si amplificò a dismisura e nel 1952 fu prodotta una certa... Gibson Les Paul.
Alzi la mano chi oggi considera la Les Paul una signature! Nessuno, lo sapevo. Oggi è un modello, anzi, più di un modello, una serie di modelli (alcuni dei quali a loro volta signature di altri musicisti), direi un caposaldo della chitarra elettrica, che Gibson mai si sognerebbe di togliere dal catalogo perché orde di seicordisti imbufaliti arriverebbero minacciosi a protestare davanti agli stabilimenti.

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Non sto a raccontarvi chi fosse Lester William Polsfuss (Les Paul, per gli amici), di cui troverete tutto sulla rete, ma voglio evidenziare solo l’aspetto commerciale che la Gibson sfruttò: intitolò a lui la sua solid body in quanto famoso, oltre che per la sua attività di musicista, per la sua voglia di innovare e sperimentare nuove tecnologie. Chi meglio di lui poteva aiutare Gibson a opporsi a Fender, che da poco aveva immesso sul mercato la Broadcaster, poi ribattezzata Telecaster?
Il progetto della chitarra è sostanzialmente del presidente Gibson, Ted McCarty. A Les Paul si devono solo due cose: la prima è la finitura goldtop, tuttora tra le più apprezzate, e la seconda è il ponte a trapezio, durato poco e sostituito presto dal Tune-o-matic anche perché rendeva difficile, se non impossibile, il palm muting.
Il caso della Gibson Les Paul, dal punto di vista del signature, è quindi un caso unico: il musicista acconsentì a dare il suo nome alla chitarra, di fatto senza contribuire davvero allo sviluppo dello strumento.
Ci furono poi, sempre in quel periodo, chitarre quasi-signature, nel senso che nell’immaginario collettivo furono di fatto associate ad alcuni chitarristi senza che questi ultimi ne avessero in alcun modo cercato il successo. È il caso della Fender Stratocaster tutta bianca con hardware dorato, associata al nome di "Mary Kaye" e rimasta tale nella storia, anche quando a suonarla furono chitarristi del calibro di Keith Richards.

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Per finire con gli anni ’50, merita una citazione la Gretsch 6120, sul cui battipenna appose la firma Chet Atkins che, oltre a essere il noto e rispettato musicista che tutti sappiamo, fu il produttore di molti successi di Elvis Presley. La sua chitarra fu suonata da molti chitarristi anche negli anni che seguirono, tra cui un certo George Harrison.

Verso la fine degli anni ’60 assistiamo a un fenomeno curioso: mentre continua ad aumentare la produzione di chitarre archtop signature, intitolate a famosi jazzisti, nel mondo del rock nessuna sei-corde viene prodotta con la firma di un chitarrista, nonostante la chitarra sia lo strumento protagonista della rivoluzione rock, nonostante le innovazioni stilistiche e tecnologiche, nonostante l’aumento dei volumi di vendita delle solid body e, infine, nonostante la comparsa sulla scena musicale di chitarristi del calibro di Eric Clapton, Jimmy Page, Jeff Beck e Jimi Hendrix, tanto per citarne alcuni a caso.
Se da un lato alcune industrie, venendo associate ai Beatles, godevano di un enorme successo commerciale (è il caso di Vox, Rickenbacker e Hofner), dall’altro il mercato rimaneva in attesa, convinto che il rock fosse un fenomeno passeggero, non meritevole di prodotti signature.
Grandi profeti, non c’è che dire!

In quel periodo, se volevi suonare la chitarra elettrica del tuo idolo dovevi comprare la stessa chitarra ma senza il suo nome. Questo si spiega anche col fatto che all’epoca i grandi chitarristi suonavano strumenti di serie. Non c’era la customizzazione, non esisteva il mercato dell’hardware o dei pickup. La chitarra era quella. Punto.
Tutto cambiò negli anni ’70 e ’80, quando i chitarristi di grido apprezzavano le chitarre vecchie più di quelle nuove. Nacque la ricerca del vintage, con l’esigenza però di aggiornare e personalizzare.
Si affermò l’industria dei ricambi (Di Marzio, Seymour Duncan e altre aziende sono nate in quel periodo) e non c’era chitarra che non venisse modificata appena uscita dalla fabbrica.
La chitarra che può essere considerata la chiave di volta del nuovo fenomeno è la celebre Frankenstein di Eddie Van Halen, un vero e proprio assemblaggio di pezzi di altre chitarre, nata per cercare di combinare assieme i pregi delle Gibson e delle Fender.
Quello strumento fu poi prodotto in serie e messo in vendita come Kramer 5150 e Charvel EVH.

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I virtuosi della chitarra, gli shredder, i nuovi guitar hero fecero esplodere il fenomeno e la casa costruttrice più attiva in questo settore fu Ibanez, che produsse la serie JS di Joe Satriani e i modelli dedicati a Steve Vai, con la loro celebre impugnatura ricavata nel corpo (monkey grip).
Sulla scia del successo di Steve Vai arrivarono le chitarre a sette corde, che non potevano mancare nell’arsenale del chitarrista metal.

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Le notevoli vendite delle chitarre signature spinsero tutti i produttori ad avere in catalogo strumenti dei propri endorser più celebri.
Ecco che nel 1988 Fender produsse le Stratocaster Eric Clapton (con i pickup Lace e il mid-boost attivo) e Yngwie Malmsteen (con la celebre tastiera scaloppata). Il colosso Fender, visti i primi riscontri di vendita, proseguì di lì a poco producendo chitarre replica di quelle utilizzate da musicisti del calibro di Jeff Beck, Buddy Guy, Stevie Ray Vaughan e Jimi Hendrix.

Oggi le chitarre signature continuano a costituire una fetta rilevante del mercato e quasi sempre sono i top di gamma della produzione. Ecco perché, per tornare alla domanda che mi ero posto all’inizio, possiamo dire che ci aiutano anche a suonare meglio: perché generalmente sono ottime chitarre, costose ma costruite con cura.

Il fatto è che ce ne sono così tante nei listini, che spesso ci si chiede se tutti quei chitarristi meritino davvero una signature. Confesso che molti di loro a me sono completamente sconosciuti.
Qualche giorno fa mi sono fatto un giro sui siti dei maggiori produttori di chitarre, per vedere quante signature siano oggi disponibili sul mercato e ce ne sono davvero una marea: senza guardare al mercato delle acustiche e delle hollow-body ma rimanendo confinati nel settore delle solid body, Fender ne propone ben 59 (da quelle dei mostri sacri Clapton, Gilmour, Beck ecc. fino alla... Telecaster Avril Lavigne), Gibson si "limita" a 23, Ibanez ha 17 chitarristi nelle proprie fila ma talvolta ha più chitarre per ogni musicista (le signature di Steve Vai al momento sono cinque, più la versione mancina), Schecter ne offre 37, Paul Reed Smith ne conta 13 e altre 13 nella versione più economica SE, Jackson si ferma a 15, risaliamo a 28 con ESP, Music Man oggi ha nella sua scuderia Petrucci, Lee e Morse (ma per ognuno di questi ha più modelli), Dean ne produce 15, mentre Yamaha si "accontenta" del solo Mike Stern.
Un'infinità di chitarre signature! E mi sono limitato a guardare i listini internazionali, perché poi ci sono anche le "firme nazionali", che da noi significano Ibanez Cesareo, Blade Maurizio Solieri e via suonando (chi si ricorda la Fender Dodicaster, la Stratocaster dedicata a Dodi Battaglia?), fino ai prodotti signature di liuteria.
Mi sarebbe piaciuto trovare una Gibson Les Paul Franco Mussida, ma non c’è.

Per chiudere questo articolo e per completezza di informazione, sperando di non avervi annoiato e di non aver portato la vostra GAS sopra il livello di guardia, vi segnalo che ci sono anche alcuni produttori che, pur contando fior di chitarristi nei propri ranghi e sfornando chitarre da mille e una notte, non producono signature: Godin (nel cui sito, stranamente, si parla di signature ma vengono elencati cinque modelli di serie), Tom Anderson, Suhr (nel sito ufficiale non vi è traccia di chitarre signature, mentre è presente un amplificatore "firmato"), Rickenbacker e probabilmente altri.

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