È un’estate all’insegna del grande rock, quella del 2014. Dopo il grande in occasione del concerto-evento al Circo Massimo di Roma e degli Aerosmith all’Arena Fiera di Rho, ieri sera in Toscana ha avuto luogo un altro degli eventi più attesi della stagione.
Si chiama “History of the Eagles Live in Concert” il tour che sta portando Glenn Frey, Don Henley, Joe Walsh e Timothy B. Schmit in giro per il mondo per riproporre il proprio catalogo di successi, e prende il nome da uno splendido documentario sulla storia della band uscito nel 2013, con la partecipazione di Don Felder (che ormai non fa più parte della lineup), dei due membri originari Bernie Leadon e Randy Meisner e di ospiti illustri, tra cui Jackson Browne. A dir poco colossale, il tour è partito ufficialmente il 6 luglio dell’anno scorso e presumibilmente terminerà nel marzo del 2015, con 116 concerti distribuiti in tre continenti diversi.
Per la loro unica data italiana, gli Eagles hanno scelto il Lucca Summer Festival, in cui fecero la prima comparsa nel lontano luglio del 2001. Era dal 2009 che la band non si esibiva nel nostro paese e non è un segreto che uno dei motivi sia il cachet proibitivo, ostacolo evidentemente bypassato dall’organizzatore D’Alessandro&Galli, che ha appena portato i Rolling Stones a Roma con un enorme successo di pubblico. Con la data lucchese, che ha aperto il rinomato Festival, si è chiusa l’ala europea del tour, che proseguirà in Nord America a fine agosto.
Gli Eagles hanno raccolto in Piazza Napoleone un pubblico eterogeneo, desideroso di toccare con mano la magia di uno dei gruppi più popolari di tutti i tempi, attraverso un concerto la cui set list abbraccia quasi quarant’anni di canzoni. Alla sola vista della band, la folla è esplosa in un’ovazione e l’eccitazione si è stemperata soltanto con l’inizio del viaggio sonoro, la cui apertura è stata affidata a “How Long”, vecchio brano del collaboratore di lunga data e amico J.D. Souther, inciso dagli Eagles nel 2007. Dopo la brevissima parentesi del passato più recente della band, ci si è immersi completamente negli anni ’70 con una serie di ballate killer: prima una splendida versione di “Take It to the Limit”, brano originariamente interpretato dall’ex compagno di band Randy Meisner, poi “Tequila Sunrise”, uno dei capolavori dell’album “Desperado”, e infine la splendida “I Can’t Tell You Why”, cantata dal bassista Timothy B. Schmit. La sua breve permanenza negli Eagles, dall’uscita di Randy Meisner fino al “congelamento” del gruppo, non gli ha permesso di interpretare troppi successi, ma sicuramente questo brano è uno dei momenti più belli della produzione dei tardi anni ’70 della band. La voce eterea di Schmit e la delicatezza della sua interpretazione hanno suscitato non poche emozioni a Lucca. E le voci sono state grandissime protagoniste della serata: come già i precedenti, il brano “Lyin’ Eyes” ha regalato delle splendide armonie vocali, che da sempre sono un marchio di fabbrica del gruppo (come ha ricordato Frey, tra l’altro, con questo brano vinsero un grammy per il miglior arrangiamento vocale nel ’75).
È apparso evidente fin da subito che Henley e Frey rivestano nello spettacolo un doppio ruolo di musicisti e di maestri di cerimonia, incarico che spetta loro anche in virtù del fatto di essere gli unici due membri originari della band. Lo conducono, tra l’altro, egregiamente, sfoggiando uno humour e un savoir faire da grandi intrattenitori.
Dopo tanta dolcezza, alla domanda di Frey se il pubblico fosse pronto per un po’ di rock, la risposta non si è fatta attendere. Sono state, quindi, servite “Heartache Tonight” (divertissement frutto di una jam di Henley e Frey con gli amici Bob Seger e J.D. Souther del ‘79) interpretata egregiamente e con grande feel da Frey nonostante non fosse al top della forma, vocalmente; un’arrogante versione “Those Shoes” e l’epocale “In the City” (pezzo di Walsh e Barry De Vorzon reso eterno dal film del ’79 “I guerrieri della notte” di Walter Hill). A questo punto la scena era ormai tutta del folle axeman di Wichita, che nel corso della serata ha giocato incessantemente col pubblico e gli ha regalato anche dei successi della sua carriera solista, come “Life’s Been Good” (brano autoironico sugli eccessi di una rockstar, finito anch’esso nella colonna sonora di un film, FM) e il capolavoro “Funk #49”, superhit dei tempi in cui Walsh militava nel power trio James Gang. Viso segnato da decenni di sregolatezze di ogni tipo, qualche divorzio e molte sventure (tra cui la perdita della primogenita di appena 3 anni, morta in seguito a un incidente stradale nel ‘74), oggi Joe Walsh è più vitale che mai e merita, qui, una menzione speciale. Un intenso programma di disintossicazione dall’alcol e la ritrovata serenità familiare già da qualche anno lo hanno restituito al mondo al top della forma. “Average Joe” condensa tutte le doti che fanno un grande chitarrista: un playing incisivo, eclettico, originale, onesto, personale; trasuda l’agio di un consumato calpestatore di palchi, nonché grinta, humour (anche nel songwriting), grande interplay con gli altri elementi della band, e in questa esperienza live si percepisce quanto si debba a Walsh per l’iniezione rock nell’amalgama prevalentemente country del sound degli Eagles fino al momento della dipartita di Bernie Leadon. I suoi riff sono irresistibili, i suoi soli propulsivi e, se non bastasse, è grande anche vocalmente, pur non avendo una voce celestiale quanto quella dei compagni. Sono certa che in molti, come me, trovino incredibile che l’uomo che nelle interviste parla sempre lentamente e con voce bassa e impastata si possa lanciare in interpretazioni simili.
Incluse nel set della serata anche “One of These Nights”, superhit tratta dall’omonimo disco del ’75, e “Dirty Laundry”, un brano del primo disco solista di Henley del 1982, interpretate in modo davvero magistrale dal cantante e batterista (sempre eccezionale nel primo dei due ruoli). Ha chiuso la prima parte del concerto “Life in the Fast Lane”, di cui il pubblico ha continuato a canticchiare lungamente il riff durante la pausa, nell’attesa del più classico dei bis, che non ha tardato ad arrivare: l’immancabile “Hotel California”, brano più popolare e forse più inflazionato degli Eagles, che non ha perso nulla della sua magia originaria, se non la presenza del grande Don Felder, autore dello storico intro del brano. Le tensioni tra Felder e Frey furono una delle cause principali che condussero alla fine delle attività del gruppo all’inizio degli anni ’80, provocando una frattura apparentemente insanabile (notoriamente, Henley affermò che gli Eagles avrebbero suonato “di nuovo insieme soltanto quando ghiaccerà l’inferno”). La band si riunì nel ’94 contro ogni aspettativa (tra l’altro con un disco dall’ironico titolo “Hell Freezes Over”, l’inferno si ghiaccia, n.d.r.), ma Felder alla fine venne estromesso nel 2001, in seguito al profondo disaccordo in merito alla ripartizione delle royalties dei brani di alcuni album e altre questioni, sfociate in una serie di azioni legali che sancirono la definitiva rottura dei rapporti. In tutta onestà, nel pieno rispetto del lavoro del “sostituto” Steuart Smith, a tratti durante il concerto se ne è proprio sentita la mancanza. Il gran finale ha chiuso idealmente il cerchio, facendoci fare l’ennesima escursione nella memory lane della musica: “Take It Easy”, il primo, storico singolo degli Eagles, scritto nel ’72 da Frey insieme all’amico Jackson Browne, che viveva nel suo stesso edificio; “Rocky Mountain Way”, brano del ’73 dei Barnstorm di Walsh, band in cui militava prima di entrare negli Eagles, che era il debutto alla chitarra slide di Joe (per più di un anno si era esercitato mettendo in pratica i consigli dell’amico Duane Allman, incluso l’uso della bottiglia di sciroppo Coricidin) e, si dice, il brano in cui per la prima volta in assoluto venne usato il talk box. La serata è terminata sulle note di “Desperado”, il capolavoro di western sound che segnò la nascita della coppia artistica Frey/Henley, che credo abbia portato la commozione del pubblico al suo culmine, grazie all’ incredibile interpretazione di Henley. Mentre i turnisti che li hanno accompagnati – i cinque fidati collaboratori, Scott Crago (batteria e percussioni), Richard Davis (tastiere, percussioni e cori), Will Hollis (tastiere, percussioni e cori), Steuart Smith (chitarra e cori), Michael Thompson (tastiere e cori) – uscivano di scena, Schmit, Henley, Frey e Walsh sono rimasti sul palco per i saluti finali. Doverosa la standing ovation. A questo punto ci si sente esattamente come alla fine di un bellissimo viaggio: stanchi, felici, arricchiti e carichi di spunti su cui riflettere. Il principale rischio che si corre nel recensire un concerto come quello degli Eagles a Lucca è di cadere nella trappola delle celebrazioni più banali, ma, se si sceglie di esprimersi con onestà, risulta impossibile non riconoscere alla band di aver ideato un evento che ha immensi pregi, primo fra tutti l’alta qualità del concerto a livello artistico: perfettamente coordinata da due leader di pari carisma e rilievo (Don Henley e Glenn Frey), la band ha un’amalgama eccezionale, frutto di anni di un duro lavoro che ha le sue radici in un’epoca lontana (gli Eagles registravano in analogico suonando tutti insieme; non si può dire che la cosa non li abbia formati). In secondo luogo, non è trascurabile il valore documentario di uno spettacolo che passa in rassegna la storia di un gruppo cruciale e che, pertanto, permette di esplorarne il repertorio e la storia toccandoli con mano. I brani eseguiti, inoltre, sono un distillato della migliore produzione della band, che, essendo massiccia, regala una quantità di perle stupefacente. Infine, non nascondiamocelo, questa è stata probabilmente l’ultima occasione di vedere gli Eagles suonare dal vivo in un tour mondiale. La malinconia non ha certo permeato la serata, ma sicuramente ha reso tutto particolarmente intenso.
Nonostante l’imponenza dello spettacolo, però, non c’è niente di eccessivo nel resoconto che queste anti-rockstar fanno della propria carriera, se non la bellezza dei brani e la suggestione delle immagini che li accompagnano sui megaschermi. Un aspetto decisamente discutibile, invece, è stata la scarsa durata dello spettacolo, non proprio proporzionata al prezzo del biglietto (circa un’ora e quaranta minuti, contro le tre ore di alcuni concerti dello stesso tour in altre città). Diversamente da altre tappe, inoltre, questo live non si è configurato come un percorso cronologico nella produzione della band. Spesso soggetto a disapprovazione c’è anche il fatto che molto del concerto sia studiato nel dettaglio e niente (o poco) venga lasciato al caso. Nel corso degli anni questa critica è stata mossa più volte agli Eagles, anche da alcuni colleghi (notoriamente da David Crosby). Personalmente, però, non ho avvertito l’attentissimo rispetto delle stesure e degli arrangiamenti vocali, o la fedele esecuzione di certi soli (che praticamente sono temi) come un limite. La nitidezza dell’esecuzione dei brani è a pieno titolo una caratteristica del sound degli Eagles, nei dischi come dal vivo. Non c’è stato un momento del concerto in cui la band sia risultata poco coinvolgente o asettica. Una band in attività da decenni – e rigorosamente al top – raramente si imbarca in progetti che non siano più che gratificanti per sé e per il pubblico. Nel caso degli Eagles, che si sono concessi una pausa di 14 anni prima di prendere lontanamente in considerazione l’ipotesi di tornare a esibirsi insieme, poi, questa è una considerazione più che scontata. C’è da augurarsi che l’inferno continui a ghiacciare ancora a lungo, perché quella di questa sera è un’esperienza che augurerei di fare a ogni musicofilo. ScalettaHow Long Take It to the Limit Tequila Sunrise I Can’t Tell You Why Lyin’ Eyes Heartache Tonight Those Shoes In the City One of These Nights Life’s Been Good (di Joe Walsh) Dirty Laundry (di Don Henley) Funk #49 (di Joe Walsh + James Gang) Life in the Fast Lane Bis Hotel California Bis 2 Take It Easy Rocky Mountain Way (di Joe Walsh & Barnstorm) Desperado (Foto di Fabio Petrozzi)
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