di LaPudva [user #33493] - pubblicato il 18 luglio 2014 ore 07:30
Lo avete appreso su queste stesse pagine, una triste notizia ha scosso le comunità rock e blues poche ore fa: Johnny Winter è morto. Ripercorriamo le principali tappe della sua carriera per ricordare i successi del bluesman bianco.
Lo avete appreso su queste stesse pagine, una triste notizia ha scosso le comunità rock e blues poche ore fa: Johnny Winter è morto. Ripercorriamo le principali tappe della sua carriera per ricordare i successi del bluesman bianco.
Lo avete appreso su queste stesse pagine, una triste notizia ha scosso le comunità rock e blues poche ore fa: Johnny Winter è morto. A dare le notizia si sono susseguiti l’annuncio del portale American Blues Scene e un post su Facebook da parte di Jenda Derringer, moglie del vecchio compagno di band e amico di Winter, Rick Derringer, e la notizia è stata confermata da fonti ufficiali, anche se non è ancora giunta alcuna dichiarazione ufficiale da parte della famiglia.
I pensieri e i ricordi affollano la mente di chi, come chi vi scrive, ha amato e stimato Winter che, andandosene, chiude una carriera durata mezzo secolo e che era ancora in divenire. Se in questa sede è letteralmente impossibile fare una disamina della sua discografia, il pensiero corre, con non poca commozione, ai difficili primi passi di questo artista eccezionale, mossi in un ambiente ostile, e la scalata verso la meritatissima vetta.
Texani di Beaumont, Johnny Dawson Winter III e il fratello Edgar – altro artista di grande valore – sono cresciuti in una famiglia di musicisti e in un ambiente musicale le cui radici affondavano nel delta del Mississippi. Il padre, tra le altre cose, era sindaco della cittadina di Leland, dove nel giugno del 2010 è stato installato un Blues Trail Marker (una delle targhe posizionate nei luoghi cruciali per la nascita, lo sviluppo e l’influenza del blues nel Mississippi) in onore del chitarrista. Appassionato di musica fin da bambino, nell’adolescenza ha l’opportunità di vedere dal vivo e di suonare con autentiche leggende del blues, come BB King e Muddy Waters (il suo idolo di sempre e primissimo chitarrista slide che ascoltò). È proprio il blues, genere istintivo che era veicolo ideale per i tormenti quotidiani della gente comune, a farlo sentire meno solo, a dargli uno strumento per esprimere lo stato d’animo di un giovanissimo albino in una città redneck (condizione condivisa dal fratello, sorte che li legò sempre indissolubilmente): “’Somebody Walking in My Home’” di Howlin’ Wolf è la prima canzone blues che ricordo di aver sentito. Ero in camera mia a sentire la mia radio a transistor e fin dall’inizio ho capito che il blues era fatto per me. Aveva così tanto feeling! Mi piaceva proprio. E riuscivo a rapportarmi all’esperienza nera. Alla maggior parte della gente in Texas non piacevano i neri perché erano troppo scuri, e non piacevo nemmeno io perché ero troppo bianco. Era così anche quando avevo 12 anni e ho cominciato a suonare la chitarra. Da allora sapevo già molto bene che il blues era ciò che volevo suonare ed è lì che ancora torno in una prospettiva emotiva – non tecnica”.
Nella sua biografia “Raisin’ Cain: The Wild and Raucous Story of Johnny Winter” (la cui lettura raccomando calorosamente a tutti) Winter ricorda con affetto i suoi maestri, quelli che maggiormente influenzarono il suo slide playing, tecnica di cui oggi viene considerato uno dei Maestri per eccellenza: il summenzionato Muddy Waters (per imitare il quale, inizialmente, usa custodie di rossetti e vetri di orologi, non avendo idea di come ottenesse quel suono), Robert Johnson, Elmore James, Little Walter e Jimmy Reed. E poi, verso gli undici anni, decide imparare a cantare e trova i suoi ispiratori in Bobby “Blue” Bland e Ray Charles. Incredibile, ripensandoci oggi, come abbia saputo elaborare fin da giovanissimo uno stile personale anche nel canto, sviluppando quello scream cartavetroso che lo avrebbe sempre contraddistinto (il suo urlo di battaglia “Rock’n’roll” rimane leggendario).
Quando Elvis sconvolge il pianeta nel ’54, ha un incredibile impatto anche su Johnny e lo spinge a esibirsi (“Elvis riusciva a fare del blues come ‘That’s Alright Mama’ pur essendo bianco e a essere amato!”). Nel ’59, in concomitanza con l’uscita del film “Go, Johnny, Go”, in tutti gli USA si tengono dei contest per nuovi talenti e Johnny partecipa con una micidiale versione di “Johnny B. Goode”, impressionando i giudici ma raccogliendo anche le fragorose risate di chi trova grottesco l’aspetto quel ragazzo albino (l’esperienza deve essergli pesata davvero molto se, quasi un quarto secolo dopo, ne parla a David Letterman, dove viene invitato nel 1983). L’esibizione, però, gli vale il suo primo contratto discografico a soli quindici anni: con Johnny and the Jammers, fondati insieme al fratello Edgar - versatile polistrumentista - pochissimo tempo prima, aveva inciso l’album “School Day Blues” per la Dart Records, un’etichetta di Houston, uscita alla quale segue un’intensa attività live. I passaggi radiofonici, i nuovi amici e il meritato successo spingono Winter a inseguire il proprio sogno. Diplomatosi nel ’62, dopo aver completato un semestre al Lamar State College, si dedica alla musica a tempo pieno. Dopo l’incisione di qualche singolo di poco successo, decide di partire alla volta di Chicago, nella speranza di poter suonare del vero blues, ma in quell’estate del ’63 sembra esserci spazio solo per il boom del twist e Winter torna presto sui suoi passi. Il successo dei Beatles e degli Stones – che amava molto – lo spinge, però, a occuparsi con ancor maggiore dedizione alla propria musica, suonando continuamente dal vivo insieme alla sua band. Nella vita di tutti i colossi della musica, si sa, arriva un momento cruciale che cambia le carte in tavola. Dopo la rivoluzione musicale dei mid-Sixites, nel ’68 Winter è determinato a realizzare il suo primo disco solista, così scrive brani e organizza le registrazioni di una sorta di show a porte chiuse al Vulcan Gas Company, lo storico locale psichedelico di Austin, Texas. Al fianco di Winter, che oltre a cantare suona chitarra, mandolino e armonica, ci sono Tommy Shannon al basso e Uncle John Turner alla batteria. Il risultato è la demo dal nome “Progressive Blues Experiment” (poi pubblicata dalla Sonobeat Records), uno dei lavori blues più apprezzati di Winter, che include pezzi originali e versioni di classici di Sonny Boy Williamson e Willie Dixon, Muddy Waters, Slim Harpo, Blind Willie McTell, BB King e Howlin’ Wolf. Il periodo è propizio: quando Muddy Waters e Freddie King si esibiscono al Vulcan, Winter viene chiamato ad aprire i loro concerti e la rivista Rolling Stone gli dedica due pagine e la didascalia “Johnny Winter, Albino Bluesman”. In un attimo Winter diventa una celebrità e Steve Paul (proprietario dello Scene, uno dei locali più cool di Manhattan) lo introduce nel giro musicale dell’epoca: non solo lo fa esibire nel suo club (dove jammerà con Hendrix), ma lo porta al Fillmore East, dove viene invitato a suonare al concerto di Mike Bloomfield e Al Kooper. A quel punto è davvero fatta: lo show esplosivo del giovane ma consumato axeman e cantante texano impressiona a tal punto dei talent scout della Columbia Records presenti al concerto che nel giro di pochi giorni viene messo sotto contratto dall’etichetta (secondo la leggenda, gli venne accordato il più esoso anticipo nella storia della musica sino a quel momento, 600.000 dollari).
Winter rivisita i classici del blues in modo peculiare, un ponte ideale tra la tradizione del delta, il southern rock americano e il blues-rock britannico più recente (che all’epoca stava guadagnando il favore di orde di giovani fans grazie a Jimmy Page ed Eric Clapton), e i suoi brani hanno una grandissima presa anche su chi è più orientato al rock.
Poco dopo essersi trasferito con la sua band in pianta stabile nella Grande Mela, Winter registra il suo secondo album solista, lo storico “Johnny Winter”, con la partecipazione del fratello Edgar ma anche di Willie Dixon e di “Big Walter” Horton, due dei suoi eroi. Uscito nell’aprile del ’69, è un sogno che diventa realtà e il successo è così grande che Winter viene chiamato a partecipare col suo trio a Woodstock e numerosi altri festival. Lo stesso anno incide “Second Winter” (con la storica copertina del fotografo Richard Avedon), album che segna lo shift verso sonorità più hard rock. “I puristi del blues non amarono quel disco. Dissero che mi ero venduto e penso avessero ragione… Mi ferì sentire quelle cose, ma penso che fosse necessario accettarle. È difficile, perché la gente ha idee piuttosto rigide su come dovrebbe suonare il blues. Si perdono un sacco di buona musica sostenendo che tutto ciò che non è blues classico non si possa considerare blues e anche rifiutando di suonare rock’n’roll, perché c’è anche un sacco di buon rock’n’roll là fuori!” ha detto in merito, e non è un segreto che non amasse essere etichettato (“Non mi considero un musicista di ‘Texas blues’ perché suono un sacco di stili diversi”). Proprio in seguito a questa scelta stilistica, Winter, spinto da Steve Paul (più tardi si pentirà amaramente di essersi fatto gestire da lui e definirà la sua firma su quel contratto di management come il suo unico rimpianto), si separa dagli amici Shannon e Turner e forma una nuova band dal nome Johnny Winter And, che include alcuni ex-membri dei McCoys (Rick Derringer alla chitarra, il bassista Randy Jo Hobbs e il batterista Randy Zehringer, aka Randy Z). Il gruppo pubblica un disco in studio e uno live, usciti rispettivamente nel ’70 e nel ’71, e passa alla storia per le prodezze durante i propri teatralissimi concerti.
Sfortunatamente, l’improvvisa notorietà e le difficili scelte imposte dallo spietato music business fanno sprofondare Winter nella dipendenza dall’eroina e dall’alcol. Dopo un momentaneo allontanamento dalle scene durante il quale si trova ad affrontare un’overdose che lo porta vicino alla morte e un difficile periodo di riabilitazione, Winter decide di tornare alla vita e alla musica, imponendosi leggi ferree che ha sempre seguito da allora (mai lavorare più di 5 giorni a settimana, mai rimanere in tour più di sei settimane di fila, evitare il contatto prolungato coi tossici). Messa a punto una nuova lineup, nel ’73 ha dato vita al suo quinto album dal titolo esplicito (Still Alive and Well), un disco dall’inconfondibile blend di blues e hard rock che caratterizzerà tutti i successivi lavori che, uno dopo l’altro, lo hanno reso uno dei chitarristi più popolari del pianeta. Le sue performance funamboliche hanno parimenti contribuito a fargli raggiungere uno status leggendario (tanti, non a caso, sono i dischi live): oltre alla maestria nel suonare e nel cantare, era uno showman dal grandissimo carisma e dalla presenza scenica incredibile, che non mancava di sovraccaricare con mise eccentriche e gioielleria varia (per scegliere la quale si ispirava alle foto dei suoi maestri blues). Per uno strano scherzo del destino, proprio quell’albinismo che un tempo era causa di scherno e di sofferenza, si è trasformato in un marchio di fabbrica che lo ha reso inconfondibile (e amatissimo) anche da un punto di vista visuale. Nel corso degli anni ’70, oltre a realizzare altri quattro album in studio, è anche produttore di Muddy Waters. Dopo la chiusura della leggendaria Chess Records, Winter è stato determinante nel ritorno del suo beniamino in studio di registrazione per la realizzazione degli album “Hard Again”, “I’m Ready” e “Muddy ‘Mississippi’ Waters Live”, tutti vincitori di grammy (e Winter ne vinse uno anche con il suo album “Nothin’ But the Blues” del ’77). Produce, inoltre, dischi dei Thunderhead e di Sonny Terry. La sua attività discografica prosegue ininterrotta negli anni ’80 con Raisin’ Cain (ultimo disco per l’etichetta Blue Sky) e le sue tre uscite per la Alligator Records, Guitar Slinger (1984, da molti considerato uno dei sui migliori album), Serious Business(1985) e Third Degree (1986), con un ennesimo cambio di etichetta per The Winter of ‘88 (MCA). A coronamento di questa fruttuosa decade, tra l’altro, nel 1988 è viene introdotto nella Blues Foundation Hall of Fame ed è il primo artista bianco a ricevere un simile riconoscimento.
Nel ‘91 pubblica “Let Me In” per poi fermarsi l’anno successivo con “Hey, Where’s Your Brother?”. Una serie di lutti e il peggioramento delle sue condizioni di salute e del suo umore lo spingono a ridurre drasticamente le esibizioni dal vivo. A peggiorare la situazione, una serie di azioni legali contro la D.C. Comics (che a suo avviso aveva usato illecitamente la sua immagine e quella del fratello Edgar nella serie di fumetti intitolata “Jonah Hex: Riders of the Worm and Such”) e contro un ex-manager dei primi anni che vendeva materiale non depositato risalente al ’66 tenendosi tutti i profitti (i problemi di natura legale relativamente ai diritti sulle pubblicazioni e altri aspetti della sua produzione hanno costellato l’intera carriera di Winter). Le condizioni fisiche del musicista, intanto, peggiorano vistosamente ed è ormai dipendente da svariati farmaci. La successiva uscita discografica non arriverà che nel 2004, con “I’m a Bluesman”, che gli vale anche una nomination ai Grammy (ma, diciamolo, questi riconoscimenti non aggiungono nulla, nella sostanza, a una carriera che parla da sé).
L’ultimo disco, Roots, che vanta la collaborazione di Susan Tedeschi, Derek Trucks, Warren Haynes, Vince Gill e del fratello Edgar, è uscito nel 2011 dopo un ulteriore silenzio discografico durato sette anni. Winter non ha fatto, invece, in tempo a gustarsi l’uscita del suo ultimo lavoro, Step Back, prevista per il 2 settembre prossimo (Eric Clapton, Leslie West e Billy Gibbons tra gli ospiti, n.d.r.): è morto nella sua stanza d’hotel di Zurigo soltanto quattro giorni dopo la sua ultima esibizione dal vivo al Lovely Days Festival di Wiesen, in Austria. Ha potuto, però, godere di una vera rinascita artistica negli ultimi anni, confermata, tra l’altro, dal grande numero di appassionati che continuavano ad accorrere ai suoi concerti (nel maggio scorso ha suonato anche in Italia, a Roma, Udine e Mezzago). In particolare, motivo di grande soddisfazione per lui è stata l’esibizione con la Derek Trucks Band il 28 luglio del 2007 al Crossroads di Chicago, con cui ha eseguito una versione di “Highway 61 Reviseted”di Dylan che ha riscosso molto successo e dove si è esibito anche con Clapton, Buddy Guy, Robert Cray e John Mayer in una versione di “Sweet Home Chicago”.
Solo pochi mesi fa è uscito il documentario "Johnny Winter: Down and Dirty" che celebrava i suoi 70 anni, compiuti il 23 febbraio scorso. Non molti, verrebbe da dire, ma a ben pensarci è da annoverarsi tra la risma di artisti che chiudono la propria vita con tante esperienze alle spalle da poter dire di averne vissute dieci. Soprattutto, ci saluta con una soddisfazione: alla domanda “Come ti piacerebbe essere ricordato?”, senza pensarci su due volte, Winter ha risposto sorridendo “Come un bravo chitarrista blues”. Missione compiuta. Ci si sente sempre un po’ smarriti quando se ne vanno artisti di questo calibro, perché vengono meno dei pilastri su cui poggiano edifici meravigliosi del pantheon della musica. Consola il pensiero che il lascito di Winter sia generosissimo. Per me sarà sempre lì con la sua Firebird a tracolla, the warmest Winter ever!