Maurizio Solieri: al grosso pubblico la musica non interessa
di Gianni Rojatti [user #17404] - pubblicato il 07 settembre 2015 ore 14:30
Intervistiamo Maurizio Solieri, leggenda della chitarra rock italiana. La sua sei corde ha suonato nei dischi e tour leggendari di Vasco. Maurizio ci dice la sua sulla scena attuale: dal menefreghismo del grande pubblico, fino alle illusioni dei talent show passando per la svolta metal di Vasco Rossi. E non fa sconti a nessuno.
Maurizio ma Vasco in questa chiacchierata lo possiamo nominare?
(risate) Certo! Io parlo volentieri e serenamente di tutto, sempre. Non preoccuparti che le mie risposte saranno assolutamente diplomatiche. (altre risate)
Hai visto qualche data dell’ultimo tour? Che idea ti sei fatto?
No, non ho visto un concerto intero ma ho guardato abbastanza video per farmi un’idea. Ho sentito parecchio metal negli arrangiamenti, nei riff. Non lo so, Vasco ha più di sessant’anni è un classico, sentirlo in questa veste mi fa lo stesso effetto che potrebbe farmi Mick Jagger che chiama Zakk Wylde alla chitarra. Per carità, al contempo lo apprezzo per la volontà - a questo punto della sua carriera - di cercare di rinnovarsi, sperimentare. Anche se alcune cose che ho sentito mi sono sembrate un po’ forzate.
Poi, francamente, non è che ci sia stata una radicale rilettura metal; sì, ci sono degli elementi metal come per esempio nell'intro di “Stupendo” che suona quasi come certe cose di Malmsteen. Ma poi, oltre a quell'inizio, il brano è sostanzialmente come lo si faceva noi negli anni ’90.
Sapevi di Vasco così appassionato di metal?
Tutta questa voglia di metal non arriva da lui. La responsabilità è di Guido Elmi, il produttore storico di Vasco, che è stato bravo a convincerlo a prendere questa direzione. Conosco Elmi dal 1979, dagli inizi della carriera di Vasco. Elmi è uno che musicalmente si annoia molto facilmente e negli ultimi anni si è intrippato con il metal estremo: roba del nord europa, gotica…
Negli anni '80 con Vasco sei stata la chitarra di alcuni dei dischi rock più importanti della musica italiana: “Va bene, Va bene così” “C’è chi dice no” “Cosa succede in citta”.
Cosa rimane di quel periodo, di quella maniera di fare musica?
"Cosa resterà di questi anni ’80?" (Canticchia ridendo…) Resta una certa nostalgia. Ma non solo; giro l’Italia e scopro ventenni, allora nemmeno nati, che idealizzano quegli anni. Rimpiangono di non averli vissuti perché li percepiscono come un periodo in cui c’era più cura per il suonato, c’era più rock, più musica autentica. Guardandomi in giro mi accorgo che uno dei pubblici più attenti alla musica di qualità sono addirittura bambini, ben indottrinati da genitori giovani che ascoltano musica selezionata, magari proprio degli anni ’80. Ma stiamo parlando comunque di porzioni di pubblico ridotte, di nicchia. Il grosso pubblico invece…
Il grosso pubblico?
E’ superficiale e menefreghista. Il grosso pubblico non è più interessato alla musica.
Il pubblico oggi vuole essere parte dell’evento, essere presente all’evento.
Evento è una parola con cui tutti si riempiono la bocca. Tutto, deve essere un grande evento. E non solo il concerto importante, il festival…anche la "Sagra della Cipolla" oggi te la vendono come evento. E guai a non esserci!
Chi è il responsabile del fatto che non ci sia più grande interesse per la musica?
Guarda, nemmeno del pubblico. La responsabilità ce l’hanno i media, le radio commerciali che hanno assuefatto il pubblico con questa musica easy, finto alternative: musica piatta, incolore, monocorde. Musica dove il rock non c’è più.
E poi sono arrivati i talent show e hanno fatto un bel danno pure loro…
Quale danno?
Illudere una generazione. Convincere tutti che si può e si deve essere famosi, protagonisti.
E invece ognuno ha il suo talento, la sua strada da seguire. E non necessariamente tutti hanno la possibilità, l'attitudine per diventare una pop star, una rock star. Io vengo da una famiglia di medici ma sono sempre stato un creativo, avevo un vero talento per la musica e ho seguito quella vocazione. E, serenamente, posso dire che la mia carriera, i dischi che ho inciso, la musica che ho scritto e gli apprezzamenti e l’accoglienza che ricevo quando giro l’Italia – pensa che mi chiamano maestro! – sono la prova che quella fosse la strada giusta da seguire. Oggi i talent invece, convincono anche chi nasce con il bernoccolo di fare il medico a tentare la via del successo televisivo e musicale. Magari senza che ci sia dietro alcun vero talento.
Qual è il merito più importante che ti riconosci come chitarrista?
Di essere stato capace di proporre un mio gusto, un mio stile riconoscibile. Per esempio, a Ricky Portera ho sempre riconosciuto la capacità di riprodurre uguali, nota per nota, gli assolo di tanti grandi guitar hero. A me non è mai interessato: anche quando da ragazzino imparavo le parti di Clapton o Page, i miei eroi, magari facevo l’inizio e la fine uguali ma in mezzo ci mettevo il mio. Ci mettevo la firma.
E questa tua unicità stilistica in cosa la vedi?
Nell’avere sempre pensato il discorso solistico come una prosecuzione della melodia della canzone. Mi viene naturale perché io sono anche un autore, scrivo canzoni e penso in quella direzione mettendo la composizione al centro. Ogni parte di chitarra deve essere sempre funzionale alla scrittura della canzone, alla melodia. Non sono un solista a tutti i costi. Mai stato.
Molti ti riconoscono il merito di essere stato il chitarrista italiano che, prima di ogni altro, ha recepito e utilizzato le innovazioni di Van Halen…
Il merito di aver veramente sdoganato il rock americano e inglese nella chitarra italiana va, prima ancora, tutto ad Alberto Radius, Nico Di Palo e anche Franco Mussida. I loro stili sono stati i primi a ispirarsi in maniera credibile a quelli di Hendrix, Brian May…
A proposito di chitarristi, tu hai diviso il palco con Andrea Braido e Stef Burns due delle chitarre più amate dal pubblico di Vasco…
Mi sono trovato bene con tutti e due. Sono uno a cui piace collaborare. Andrea Braido, quando è arrivato con noi alla fine degli anni ’80, era un ragazzino, ancora inesperto. Si trovava, di colpo, proiettato dai localini e piccoli club a suonare negli stadi. Questo lo portava a voler fare di tutto, di più; una situazione che lo spingeva a un protagonismo chitarristico assoluto. Andrea è uno che sa suonare di tutto. Molto dentro il jazz, la fusion. Io sono un autodidatta e non so nulla di quei generi. Nemmeno mi piacciono molto. Stef è uno che ha una grande carriera, che ha suonato con Alice Cooper. Anche lui sa suonare davvero di tutto. Mi sono sempre trovato bene con lui. Ma, in generale, mi sono sempre trovato bene con gli stranieri. Per loro non importa chi sei, con chi hai suonato: se sei bravo, sei bravo. Tutti i batteristi americani che hanno suonato con Vasco mi hanno sempre apprezzato.
Senti, da musicista maturo e che ha fatto le cose importanti che hai fatto tu, cos’è che quando ascolti suonare un chitarrista ti fa capire se ti trovi davanti un professionista o meno?
Sai, io giro molto con le tribute band di Vasco che mi chiamano come ospite. Io sono un’icona per il pubblico di Vasco: del resto siamo nati assieme. Così mi confronto con tanti giovani chitarristi e - avendo qualche annetto e tanta esperienza in più – vedo musicisti molto preparati, con pedaliere e strumentazioni impressionanti, super professionali ma senza uno stile personale. Hanno suoni e fraseggi imparaticci, si formano con anni di imitazione dello stile degli altri, senza preoccuparsi di cercare un loro proprio registro espressivo. Tutti si ispirano a Stef Burns, a quel chitarrismo un po’ da session man con un sound mai troppo cattivo. Chitarristi davvero originali è difficili trovarli.
Noi - e mi riferisco a chitarristi come me, Mussida, Di Palo, Radius – veniamo da un periodo in cui le cose si inventavano. Regnava la creatività. Oggi, purtroppo, c’è un tale appiattimento.
Me lo chiedo da sempre: in "Va bene, va bene così" live di Vasco del 1984, avevi un suono spettacolare. Ti ricordi che utilizzavi?
Usavo due amplificatori: un testata e cassa Marshall per i distorti e un combo Fender per i puliti. Passavo da uno all'altro con un pedale AB. Poi avevo un paio di effetti a pedale della Boss, un chorus e un overdrive. Poi un wha-wha e un compressore dell'MXR. Non avevo neanche il delay, me lo mandavano dal mixer.
C'è qualche disco che hai inciso che oggi ascolti e senti vecchio? Penalizzato magari dai suoni processati che andavano di moda in quegli anni?
No, perché non sono mai stato un amante dei frigoriferi! (maniera scherzosa con cui erano soprannominati i giganteschi rack multieffetto degli anni '80 NdR). Però mi ricordo che quando abbiamo inciso "C'è chi dice no" decidemmo di usare il Rockman, un aggeggio digitale per le distorsioni che allora, era il 1987, andava tantissimo di moda. Riascoltando quel disco ti accorgi che le chitarre hanno quel suono un po' finto, molto anni '80. Ma andava così: fu una scelta di produzione mirata.