Già all’apertura delle prevendite, nel marzo scorso, i concerti di in suolo italiano si sono preannunciati come l’evento musicale dell’anno, registrando il tutto esaurito in brevissimo tempo. Le due date - Arena di Verona e Ippodromo del Visarno di Firenze, rispettivamente il 14 e il 15 settembre - sono state tra le primissime di una tournée che porterà l’artista in Europa, Sud America, Stati Uniti e Canada, e che, salvo sorprese, si chiuderà nel giugno dell’anno prossimo. Il tour, così come il disco che promuove (Rattle That Lock, quarto album solista, in uscita il 18 settembre), riporta il chitarrista dei Pink Floyd sulle scene dopo ben nove anni dal precedente, all’epoca dell’uscita di On An Island. La fretta, lo sappiamo, non è ospite gradita in casa Gilmour e la sete di ribalta gli è altrettanto invisa. Sia chiaro, come ogni artista, anche Gilmour ama le attenzioni di media e pubblico ma, molto semplicemente, non le brama: esse arrivano inevitabilmente, come accade a chi gode di uno status quasi mitico e lascia a ogni suo passaggio il desiderio di toccare con mano la leggenda in una delle sempre più rare occasioni di farlo. Ça va sans dire, di pari passo con l’entusiasmo arrivano anche le critiche di puristi, nostalgici estremisti e disfattisti che preferirebbero un ritiro al momento dello zenith della carriera di certi giganti della musica. Nemmeno questo, però, sembra tangere l’axeman di Cambridge, che sfugge volentieri tanto alle prassi dello showbiz quanto alle logiche integraliste e, fondamentalmente, fa quel che sente quando sente di farlo.
Gli esiti delle sue imprese sembrano dargli ragione. Arrivata a Firenze con ampio anticipo nel tardo pomeriggio di martedì, ho trovato un fiume umano riversato lungo Viale degli Olmi, già in attesa di entrare nell’Ippodromo del Visarno. Il tempo di abbracciare alcuni cari amici (tra cui Fran Tomasi, organizzatore, tra le altre cose, del concerto dei Floyd a Venezia e che non vedevo da anni) e lettori di Accordo e poi siamo stati invitati dalla security a sederci, “o il concerto non inizierà”. Alle 9 in punto Gilmour è comparso sul palco nella semioscurità, con gli immancabili jeans e t-shirt neri, quasi a volersi confondere nel buio, indossando una Les Paul gold top. Non so quanti chitarristi siano in grado di farlo, ma ha mandato il pubblico in delirio con una sola nota, nel suo inconfondibile, vibrante stile.
L’apertura, com’era prevedibile, è stata dedicata a tre brani del disco in uscita, tra cui la title track. Diversamente da quanto sostenevano alcune voci di corridoio poco prima dell’inizio del tour, Gilmour ha preferito non eseguire per intero il nuovo album, ma alternare alcuni nuovi brani (sette in tutto) a un paio di canzoni del precedente album solista, e un’ampia selezione tratta dal repertorio floydiano di tutte le epoche: dalla barrettiana “Astronomy Domine” a “Fat old sun”(brano di Atom heart mother che Gilmour ama molto eseguire dal vivo), dalle gemme di Dark side of the moon (“Money”, “Us and them”, “Time/Breathe reprise”) e di Wish you were here, disco che ha appena compiuto quarant'anni (la title track e “Shine on you crazy diamond”) fino agli immancabili “Run like hell” e Comfortably numb” di The Wall, includendo a sorpresa una delle più suggestive tracce degli anni ’80 post-Waters (“Sorrow”) e chiudendo il cerchio con due dei brani di The Division Bell (“Coming back to life” e “High hopes”). Insomma, una panoramica di quasi tutta la carriera di Gilmour, suddivisa in due set di un’ora e cinque e un’ora e dieci, più un bis di un quarto d’ora, facendosi accompagnare dai quali ci si rende conto dell’ampiezza dei terreni che ha battuto in quarant'anni di carriera.
Il concerto è stato caratterizzato da un palco sobrio, dominato dal tradizionale schermo circolare, filmati nuovi e storici, giochi di luce in stile floydiano e dalla presenza di una formazione in parte ben collaudata e con qualche new entry: gli amici Phil Manzanera (anche produttore del disco di Gilmour) alla chitarra, Guy Pratt al basso e Jon Carin alle tastiere, chitarra e voce (entrambi già in tour con Gilmour dai tempi dei Floyd), Steve Di Stanislao alla batteria (ottimo musicista americano che ha collaborato con artisti del calibro di Don Felder e Crosby & Nash) e i nuovi acquisti Kevin McAlea alle tastiere (irlandese e collaboratore di Enya, dei Clannad e di Seal prima, poi di Kate Bush), Theo Travis (sassofonista di estrazione jazz e prog che ha collaborato con Gong, Soft Machine, Legacy e Robert Fripp) con i coristi Louise Clare Marshall e Bryan Chambers. Musicisti perfetti per coadiuvare Gilmour, e tra i quali la cui sintonia è evidente. Anche in occasione dei concerti italiani dell’axeman non sono mancate lodi sperticate ma neanche, benché in misura inferiore, critiche spietate. Una cosa è certa: chi si aspettava di trovare un Gilmour in forma perfetta e di assistere a una performance impeccabile non ha fatto i conti con alcuni aspetti fondamentali. Le priorità di Gilmour si sono spostate da almeno vent’anni da una costante e maniacale dedizione al proprio lavoro in epoca floydiana a un successivo, comprensibile desiderio di dedicare più tempo alla propria vita privata e di gestire la carriera solista senza scendere a compromessi di alcun tipo. Suonare in pubblico raramente comporta sicuramente delle conseguenze in termini di fluidità nell’esecuzione, ma ecco la buona notizia: questo non compromette necessariamente un concerto. Se non sono mancate incertezze e qualche errore (forse più sentiti in brani storici come “Money” o “Shine on you crazy diamond” perché sacri e inviolabili), il lirismo di Gilmour, il suo stile ed il suo gusto inconfondibili tanto sul versante chitarristico quando su quello vocale, l’intensità emotiva costruita nell’interpretazione di alcuni tra i brani più belli della storia del rock e il magnetismo dell’artista hanno reso l’evento qualcosa di prezioso.
Alternandosi tra una Les Paul Gold Top del ’56, una Fender Esquire del ’55 e la legendaria Black Strat, oltre a una Jedson lapsteel, una Gibson Western del ’59 e una Taylor NS74, Gilmour è un trionfo di stile: maestoso ed elegante, il suo sound è determinato ben più dal suo tocco inconfondibile che dalla sua seppur ricchissima strumentazione. C’è da rallegrarsi, a mio avviso, che abbia deciso di sottrarsi alla latitanza e che questa scelta sia stata accolta entusiasticamente dalle migliaia di persone che in tutto il mondo si sono assicurate un posto di fronte a questo musicista, prima ancora che di fronte alla sua leggenda. Questa notte di tarda estate, sono certa, rimarrà uno dei ricordi musicali prediletti per molti.
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