di redazione [user #116] - pubblicato il 01 giugno 2016 ore 15:30
Nuovo album per The Jelly Jam progetto solista di Ty Tabor, sei corde dei Kings X con John Myung dei Dream Theater al basso e Rod Morgenstein degli Winger alla batteria. Il disco, il quarto della band, si intitola Profit ed è una fotografia efficace dell'universo sonoro di Ty Tabor, uno dei più sottovalutati chitarristi del pianeta.
E’ uscito da qualche giorno l’ultimo album dei Jelly Jam vero e proprio super gruppo composto dal chitarrista e produttore Ty Tabor dei King’s X, dal bassista dei Dream Theater John Myung e da Rod Morgenstein batterista dei Dixie Dregs e degli Winger.
L’album si intitola “Profit” ed è stato presentato dalla band come un una condanna all’inesorabile corsa al progresso, causa della diminuzione di tanti posti di lavoro; processo del quale nessuno sembra preoccuparsi delle conseguenze future.
Il disco farà la gioia non solo degli amanti del progressive ma anche di quelli del grunge visto che il sound si rifà tantissimo a quello dei King’s X di cui Ty Tabor è stato autore di alcuni dei brani più famosi e conosciuti come "Black Flag" o "Dogman". Gran parte dei brani sono pesantissimi midtempo, sorretti da groove monolitici e caratterizzati da un’amalgama densa, cupa e distorta di basso e chitarra che si fondono in un unico muro di suono e riff. I suoni di chitarra e il playing di Ty Tabor sono una delle testimonianze più vivide e originali del rock degli anni ’90. Tabor ha contaminato un chitarrismo di pura estrazione rock e metal con le, allora, nuove sonorità fangose del grunge diventando uno dei chitarristi più innovativi e apprezzati del periodo. Pur essendo uno strumentista dalle indubbie capacità solistiche (ascoltare l’assolo struggente di "Stain On The Sun" per credere) Tabor è soprattutto uno dei più rispettati chitarristi ritmici di sempre: un riff maker imponente con una gestione del timing e una potenza sonora uniche. Non per niente sono state ben tre le marche di chitarre che lo hanno omaggiato con dei modelli signature: Zion, Yamaha e ora Guilford.
Nonostante il livello tecnico altissimo dei tre musicisti, in Profit la band non insegue acrobazie strumentali o preziosismi tecnici e sembra privilegiare, nella scrittura e negli arrangiamenti, la ricerca di grandi atmosfere ora più oniriche ora più malinconiche. Tanti gli echi e le suggestioni presenti tra i solchi dell’album: dai Beatles ai Pink Floyd, fino a richiami al progressive più attuale di Steven Wilson.
Un disco particolare, intriso di tutta quella pesantezza e malinconia che si respiravano nel grunge, registrato molto bene e impreziosito da un delizioso lavoro di chitarra. Per intenditori, appassionati e - soprattutto - giovani musicisti curiosi alla ricerca di nuove, vecchie sonorità da scoprire e sperimentare.