di Quick [user #26119] - pubblicato il 07 gennaio 2019 ore 09:00
Manico impeccabile e pickup dall'output consistente confezionano una Strat dedicata agli anni '60 ma con un animo moderno. La racconta un nostro lettore.
Direttamente da Corona, la Fender 1960 Relic Stratocaster prodotta nel 2017 e in mio possesso è praticamente l'ultimissima produzione del Custom Shop. Parto nell'analisi da lontano, ma da subito vi rivelo che questi strumento mi ha lasciato un po' stupito, almeno per quelle che erano le mie aspettative.
La custodia, innanzitutto: la classica hardshell case, robusta e ben fatta, rivestita di un tolex marrone chiaro, bruttino a vedersi, con i bordi esterni rivestiti in similpelle, anche questa marrone. A ridosso della maniglia, il logo Fender in lamierino dorato. All'interno, un velluto sintetico arancio da pugno nell'occhio copre una buona imbottitura, ottimamente sagomata per ospitare la chitarra. Il logo Custom Shop è ricamato nella parte superiore della custodia. Il vano portaoggetti è di dimensioni generose ma non eccessivo. In generale una buona custodia, pur restando nella norma.
Il corredo è costituito da una tracolla Fender di pelle vintage, di quelle con la fetuccia che interseca la spalliera, un selettore a tre posizioni marchiato Fender, un cavo Fender vintage da tre metri e le brugola per le regolazioni. Ci sono anche un catalogo Fender, il manuale per la manutenzione e il certificato di autenticità su cartoncino azzurrognolo col logo del Custom Shop e la firma autografa di Tom Montgomery, direttore del reparto.
Passiamo alla chitarra. Dopo una regolazione accurata di ogni parte (è arrivata nelle mie mani in condizioni non proprio ottime) ho cominciato a guardare e poi suonare.
La paletta è piccola in stile '60 con spaghetti logo e dicitura "contour body". Sul retro, ancora il logo Custom Shop.
Il profilo è a C che più non si può. Hanno replicato molto bene i profili dei manici d'annata. L'acero utilizzato per la realizzazione è molto buono, non figurato, ma con venature molto strette. Ne ho visti anche di migliori, ma questo non è male. La tastiera è di palissandro molto scuro e compatto, credo di provenienza sudamericana, ma potrei sbagliarmi. Un ottimo taglio di sicuro. Il tutto è assemblato e incollato alla perfezione, verniciato con una leggera mano di nitro trasparente ottimamente lucidata, per il vero fin troppo. Data la finitura relic del corpo mi sarei aspettato un leggero relic anche nel manico, che è invece intonso.
Il raggio di curvatura è 9,5", mi sarei aspettato un raggio vintage ma non è così. È solo la prima delle incongruenze rispetto alle Fender vintage alle quali questa dovrebbe ammiccare.
I tasti sono quelli della moderna produzione Fender: stretti e alti. Ottimi per le mie mani, garantiscono un'intonazione accurata e mi hanno restituito subito un buon feel. Sono di acciaio inox senza compromessi, posati e lucidati in maniera maniacale, ma nulla a che vedere - anche qui - con i tasti vintage.
Una lode particolare al capotasto di osso e perfettamente realizzato e scavato. Bello da vedersi, di un bianco sfavillante e ottimo nella resa. Ne ho visti pochi così ben fatti. Le meccaniche sono in stile Grover vintage, marchiate Fender, buone ma senza strafare.
Il body è avviato al corpo con le solite quattro viti e placca di contrasto e si presenta in due pezzi (si intuisce la giunzione) di ontano piuttosto leggero.
Il tutto è coperto da una verniciatura in nitrocellulosa color Dakota Red. In pratica un rosso che vira al rosa, a seconda della luce. Nella vernice sotto al battipenna è stampigliato ancora una volta il logo Custom Shop. La finitura presenta un relic non troppo pesante ma abbastanza visibile. In alcuni punti si intravede la vernice bianca della mano di fondo. Non mi esprimo sul relic in sé, posso tuttavia affermare che l'artificio è ben riconoscibile e ne ho visti di fatti molto meglio.
Il ponte è quanto di più classico ci si possa aspettare: la replica perfetta di un ponte Fender vintage, con le sellette in piattina ripiegata e tutte le misure al posto giusto. Anche questo è stato fatto oggetto di un relic leggero: un po' ossidato, ma perfettamente funzionale. Sono montate tre molle che più che reliccate sembrano marce dalla tanta ruggine che hanno addosso. Cambiate subito con un set Fender nuovo, onde rischiare il tetano.
Sotto al battipenna mostrano una ottima vista i nuovi pickup Custom Shop 1960, perfettamente assemblati e collegati con cavi rivestiti in tessuto ai potenziometri CTS di dimensioni generose. Il tutto è impreziosito dal wiring vintage e dai condensatori Fender di ottima fattura. Sembrano essere di natura elettrolitica e assomigliano vagamente a Bumblebee. Molto buoni pure questi.
La attacco col cavo in dotazione al solito Twin Reverb e la prima impressione con i controlli flat e il gain a 5 è: "Dove hanno messo il P90?".
In effetti col pickup al manico sono stato investito una valanga di armoniche e da un timbro rotondo e inaspettatamente moderno. Molto bello e utilizzabile in vari contesti, ma proprio distante dal suono vintage che ci si aspetta. L'apparenza inganna.
Sui suoni puliti, si cambia il pickup ma il risultato resta quello: suono gigante, con le fondamentali in bella evidenza e una ottima risposta dinamica. Il tutto senza rumori e fruscii ridotti al minimo storico.
Col pickup al ponte provo ad accennare gli Shadows. Ok, ci siamo. La leva risponde bene, ma i limiti e i pregi di questo tipo di ponte sono tutti lì, in bella evidenza.
Aggiusto i medi e gli alti. Knopfler fa capolino con i suoni delle coppie davvero godibili.
Aggiungo un normalissimo Tubscreamer TS808. Tutto si ingrossa ulteriormente, ma siamo lontani da SRV. Il timbro non è vintage ma smaccatamente moderno. La Stratocaster non si tira mai indietro anche estremizzando le regolazioni. Dai suoni acidi del primo punk al rock non troppo estremo, tutto ci è concesso.
Tolgo il Tubescreamer e metto il DS-1: troppo moderno. Con i dovuti riguardi non è troppo difficile raggiungere un suono "satrianico", ovviamente con i limiti dei single coil. Torna sempre alla mente la domanda che mi faccio da un'ora: "Ma perché l'hanno chiamata 1960?"
Una chitarra ben fatta e ben rifinita, pur nei limiti del relic, con qualche caratteristica vintage ma di natura quasi solo estetica e un cuore e una suonabilità moderni. Unico neo: non è propriamente regalata, ma ognuno come al solito fa i conti con le mani, con le orecchie e pure col portafoglio.
Piccola postilla: ho fatto provare la chitarra a mio padre, chitarrista a cavallo tra gli anni '50 e '70. L'ha suonata per circa un quarto d'ora e, dopo aver detto che quelle vecchie erano diverse, mi ha raccontato questo aneddoto: "Ne avevo una uguale alla fine degli anni '60 e sono quasi sicuro che ne avesse una anche Lucio Battisti quando suonava al Casinò di Sanremo. Era difficile averne una in quel periodo. Solo quelli del Clan Celentano avevano gli strumenti Fender perché avevano una specie di sponsorizzazione, non so con chi però. In Italia non c'erano ancora. Ho dovuto comprare la mia in Svizzera, lì c'era un rivenditore che riusciva a farle arrivare. La prima l'avevo vista a qualcuno del Clan. E pure Miriadi, che suonava con Mino Reitano ne aveva una, credo.". Va a prendere una foto in bianco e nero dove lui, giovane chitarrista in perfetta tenuta da James Bond, stava sul palco di un night milanese con una Stratocaster di colore chiaro al collo.
Domando che fine avesse fatto. La risposta è laconica: "Ho sempre usato prima una Eko e poi una Gibson 175, come sai bene. Stavano diventando di moda queste chitarre che nemmeno sapevamo cosa fossero. Avevo cercato e mi ero indebitato per averne una. A un certo punto tua madre si è impuntata sulla Fiat 124. Così l'ho rivenduta a XXX che suonava già liscio nelle balere e con quei soldi ho dato la caparra per la macchina!". Pure mia madre conferma la storia ridendo. Allora lascio mio padre e l'amarcord e chiamo XXX che ancora suona le balere. Lo conosco bene e mi conferma la storia di mio padre. La chitarra in questione è ancora in suo possesso, benché sia inutilizzata da anni, a suo dire.
So che ci saranno degli sviluppi.