Sì, il vintage è il tema del momento. Non potrebbe essere altrimenti, visto che questa si radunano per la prima volta, tutte insieme, le chitarre che hanno segnato un secolo di arte, costume e stile.
Il colpo d’occhio a è garantito, dei suoni non c’è manco bisogno di parlare, ma c’è un aspetto in particolare che spesso si dimentica, nell’incontro con una chitarra il cui legno è impregnato in decenni di passione.
Le chitarre vecchie mi piacciono, tanto. Mi piacciono anche i quadri, e sento che l’esperienza di ammirare ambo le cose abbia qualcosa in comune.
Ricordo molto bene la prima volta che sono stato in una pinacoteca. Stato sul serio, non di volata con la scuola, ma una visita come si deve, in cui ti prendi tutto il tempo che desideri. Fino ad allora mi ero sempre chiesto cosa ci fosse di così speciale nel vedere da vicino le opere dei grandi. Capivo girare intorno a una scultura, ma i quadri, oggetti bidimensionali visti migliaia di volte in foto, proprio non ci arrivavo. Poi mi sono avvicinato. Ho visto le pennellate: il modo in cui la luce vi si rifrange contro racconta la storia di chi ha realizzato quell’opera, ti sembra quasi di vedere le setole che scorrono sulla tela, in un verso, nell’altro, con una forza attentamente dosata e con la giusta quantità di vernice. È una cosa che non si trasmette in uno scatto digitale.
Allo stesso modo, a lungo ho ammirato le chitarre dei miei idoli nei libri, su internet, e negli anni ho rubato immagini costruendo un archivio bello cicciotto che ogni tanto vado a gustarmi. Mi sento un po’ sporcaccione a parlarne, ma mi piace guardare i dettagli di quegli strumenti, quelli che li rendono unici. La minuscola crepa a ridosso del ponte, il modo in cui anni di concerti hanno macchiato un manico in acero, persino la vite del battipenna visibilmente sostituita mi piace. E poi una cosa che mi fa impazzire: il modo in cui la vernice raggrinzisce formando quel reticolato assolutamente unico, un’impronta digitale, una mappa capace di condurre attraverso le vicende che quel body ha vissuto. Una volta Francesco Balossino - collezionista ed esperto di vintage - la descrisse più o meno così: “sembra volersi sgretolare da un momento all’altro, ma non accade mai”. E cavolo, non accade no!
C’è però una cosa che dallo schermo non ci può passare e, come per i quadri, l’ho capito quando ho visto per la prima volta un pezzo vintage da vicino.
È stato a SHG, un po’ di anni fa, collezione Venturini credo.
Tutte le chitarre erano sdraiate sulle loro custodie. Ricordo che la cosa più istintiva che mi venne di fare fu accarezzarne super-delicatamente una, sulla “pancia”. Proprio in quel momento qualcuno disse a qualcun altro il valore di quel preciso strumento. Ritirai immediatamente la mano. Però più avanti l’avrei toccata, anche suonata, una Stratocaster degli anni ’50. Mi pare fosse del 1957, piazzatami in mano da un Alberto Biraghi gongolante, che evidentemente sapeva già quanto mi avrebbe colpito.
Leggera ma solida, in forma come il primo giorno. Il manico, ah, quel manico. Il profilo a V lo ricordo ancora, accentuato, ma comodo come pochi. E la sensazione al tatto era impressionante, il vero “già suonato” che ti fa sentire a casa. Non è una cosa da “quanto è scorrevole, potrei correrci tutto il giorno”, ma la chiara impressione di aver infilato la mano in un guanto di pelle già ben ammorbidito nei punti giusti. Un guanto non ti fa gesticolare più velocemente, ma cavolo quanto ti scalda…
Poi nel tempo ne ho viste tante di chitarre d’epoca, suonate poche, ma annusate tutte. Ecco dove volevo arrivare.
Perché c’è qualcosa nel loro odore, un dettaglio che non passa da una foto, e che ti fa viaggiare. Ti fa immaginare la strada che quel pezzo di legno ha percorso, i palchi, la birra versata, il sudore e la cenere di sigaretta. Anche il tempo chiusa in custodia le ha fatto bene, quasi a farla “macerare”. Quando sganci quei lucchetti ecco che libera tutto, come un buon whiskey torbato, che un po’ ti chiude i polmoni, ma se non lo respiri a fondo ti perdi tutto il gusto.
Quell’annusata è ormai un rito per me, ogni volta che mi trovo davanti a un pezzo d’epoca, con qualcosa da raccontare. Perché è vero che ogni graffio parla, ma ci sono cose che i segni visibili agli occhi non riescono a dire, non con la giusta poesia almeno. L’olfatto invece lo fa. È il senso primordiale, quello che immediatamente ci riporta alle nostre prime esperienze, in qualsiasi campo, e quell’odore un po’ acido, forse anche pesante, di solventi misti a una polvere ormai divenuta tutt’uno con la vernice, di legno ma anche di ruggine, mi racconta ogni volta una storia, quella della chitarra, ma anche della prima volta che ne ho guardato, davvero, una.
Questo sabato, , un'esposizione come non si è mai vista qui in Italia. Da questo link è possibile . |