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Civiltà della Critica, Civiltà del Commento
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di platoblues [user #3866] - pubblicato il 11 ottobre 2006 ore 21:56
'Civiltà della critica e civiltà del commento. I due opposti mondi o imperi millenari propongono all’uomo beni opposti.
Un testo sacro offre criteri certi di moralità e di ordine, ascesi e severità, prescrive canoni all’artista e al mercante.
La civiltà critica porge l’opposto; ma la somma di gioie e di dolori sembra uguale nell’una e nell’altra. Pace e ordine sono beni effimeri sotto l’imperio di un testo, libertà e piaceri sono immaginari nell’imperversare della critica.
Il tiranno tanto sa glossare un testo quanto sa eccitare con motti libertini; può cingere ammanti sacerdotali come vestire con la semplicità spedita del sofista . L’uno e l’altro assetto mentono quando promettono ciò che la natura ferita dell’uomo non ammette. La civiltà della critica comunque farà soffrire, perché l’uomo (come ogni essere finito) ha bisogno di certezze, di apodissi e di deduzioni, di cause finali e d’un centro su cui ruotare come un pianeta intorno al sole. Egli è assai simile alle carpe che godono e s’irrobustiscono ad avere una pietra posata al centro del loro specchio d’acqua, intorno a cui volgere giri su giri armoniosi.
La civiltà del commento d’altronde non riuscirà mai a incardinare l’uomo interamente, a elevare la città terrena sul modello della celeste, perché dovrà pur sempre investire una fragile carne di autorità, una effimera materia visibile di un mandato celeste, dovrà trasformare l’intuito dell’eterno in discorso, il criterio metafisico in sistema giuridico.
Ma si sforza a un impossibile anche la civiltà della critica: essa vagheggia un Eden di uguali, avendo in invidioso odio la gerarchia, e immagina che quivi gl’impulsi si sfrenino senza ceppi secondo armonia o secondo caos, che comunque nessuna autorità vi faccia pesare una condanna morale sul male. Dagli affreschi di Giulio Romano nella Palazzina del Tè di Mantova, da certe tele di Rubens questo miraggio libertino ci guarda, e nell’ottocento Fourier tenterà di immaginare le regole con metodici deliri. I politici tenteranno di convocare moltitudini che rappresentino in carne ed ossa questo sogno; come nella Roma imperiale la plebe visse oziosamente fra vizi, elargizioni di cibi e spettacoli, così oggi Galbraith va cercando la formula legislativa ed economica che consenta di far rivivere consimili immani torme moderne.L’uomo pena nella civiltà della libera critica perché ha in sé uno spirito la cui repressione costa fatica, pena nella civiltà del commento perché non c’è vita sociale senza istituzioni giuridiche e queste incarcerano nella finzione.Il Cristo non promise imperi visibili e un suo apostolo assicurò che la catastrofe si scatenerà allorquando tutti diranno ‘pace e sicurezza’.
I cristiani dunque non avrebbero mai dovuto illudersi di far durare una teocrazia terrena perfetta (oh oxymoron!), neanche quando tutte le leggi erano emanate in nome della Trinità e le case si stringevano attorno alla cattedrale.In verità la civiltà del commento non medica la natura umana. Però fornisce certi canoni, fa conoscere un fine e un modello che l’altra ignora.
Dà all’uomo forme perfette, eleva le sue gioie e i suoi dolori. Inoltre essa proclama palesemente il suo Testo, l’altra viceversa nasconde di averne uno: il Testo Sacro occulto ma noto, non enunciato ma operante della civiltà attuale, è un’insieme di asserzioni costrette in uno schema, che però ognuno può variare o sostituendo con sinonimi le parole o trasformando gli aggettivi in sostantivi e viceversa. Si occulta la sacralità evitando di darne letture solenni e canoniche, ma immettendone regolarmente nel flusso delle chiacchiere quotidiane le asserzioni, martellandole senza parere. Basta che la parola esprima una negazione: il ripudio del criterio di discriminazione tra bene e male e la rinuncia a precisare la causa finale: tutto dev’essere un fluire, un incalzare che non si sa dove vada a parare, una corsa nella notte; bene è il correre, male è soffermarsi, malissimo voler sapere dove si va e perché ci si vada.
Essa innalza sull’altare (…) fatti umani, mortali, provvisori, oggetti che suggeriscono la polemica, la discussione, la labile contemporaneità, la ricerca che ‘inquieta’, l’esperimento ‘sofferto’, (…) e ci si domanda come possano non uccidersi i suoi seguaci, i quali sotto questo orribile imperio non hanno più motivo di procreare, se alle generazioni future non hanno nulla da trasmettere che non sia condannato a farsi superare; non hanno motivo di edificare, se ogni cosa sussistente va demolita e rifatta (…).Per religione costituita s’intende un edificio sociale fondato sulla riverenza interiore collettiva verso un oggetto non esauribile mediante discorsi dialettici., che si denomina diabolico se il suo culto genera turbamento e furia, divino se viceversa profonde pace, insegna l’accettazione e la trasformazione del dolore, l’adeguamento a forme armoniose.
Il mondo moderno ha la sua religione, cui ogni altra è costretta a piegarsi, ed è il culto della scienza, oggetto di muto ossequio. I suoi sacerdoti, gli ‘esperti’, non hanno bisogno, salvo eccezione, di ricorrere al braccio secolare per riscuotere decime e omaggi e obbedienza dal volgo e, come quasi ogni clero, coi potenti stanno in un rapporto raramente di parità, spesso di sottomissione astiosa. (…) La scienza è l’accertamento e la misura di regolari eventi e l’enunciazione di ipotesi intorno ad essi: perché adorarla? Non è in grado di cogliere la verità, la quale non può essere ipotetica, né intuire lo scopo della vita. Certe realtà non si guadagna nulla infine a misurarle, come l’arte, la santità, che l’ipotesi non può spiegare, ma solo immiserire (…).
Il culto della scienza è politeistico e idolatra. Politeistico perché la Scienza è le scienze; idolatra perché l’oggetto del culto è opera umana. Esiste poi una sfera intermediaria di devozioni tributate a divinità non del tutto rispettabili, perciò ritenute talvolta superstiziose, con frode investite del nome ‘divino’ di scienze: la psicoanalisi, la critica d’arte moderna, la sociologia e altrettali. I loro sacerdoti non godono di un riconoscimento garantito da parte dello Stato, e vivono, gli psicoanalisti del prestigio che riescono a riscuotere presso i malati di mente, i fautori d’arte moderna della concordia fra venditori di rifiuti, i sociologi della scarsa conoscenza della storia nel mondo odierno.
Un territorio malcerto, quale ogni religione deve tollerare (…).
La religione della scienza ostenta una serie di opere di bene a proprio credito. Ma come valutare i beni senza porne una misura, il bene? La scienza stessa non sa fornire alcun criterio poiché rifiuta ogni discorso sui fini, questo infatti necessariamente dovrebbe trascendere il regno dei mezzi che essa proclama unico e sovrano. Il benessere non è il bene, ma nessuno osa meditare l’assurda identificazione delle due cose su cui poggia tutta la civiltà scientifica; l’atteggiamento del fedele antico privo d’iniziazione dinanzi a dogmi inafferrabili, che egli non poteva, né doveva approfondire, si riproduce così senza apparenti varianti.
L’uomo adora le scienze, ma è lecito dire che ne tragga nutrimento? Che tutto il suo essere ne sia conformato? Tuttora l’uomo s’aggira, in quanto vivo, nel cosmo dei suoi padri, vede ancora secondo i modi che trovano la loro formulazione più acconcia nella geometria euclidea e nella fisica classica, e su questo fondamento eleva una serie di ipotesi le quali ne sono la negazione e contraddizione. Ma che tuttavia le danno per scontate; così il telescopio o il microscopio presuppongono l’occhio disarmato, che pure negano, così l’esclusione del postulato delle parallele implica che quel fondamento appaia evidente (…).
L’artista, secondo il dogma del divenire, varrebbe per i motivi che lo rendono ‘scadente’, in quanto appare e non è, trascorre e non vige, provoca o segue una corrente invece di sollevarsi fuori dal gioco delle circostanze. Il dogma della storicità ha corroso l’arte, ambito che fra tutti pareva doverne restare immune, ma sono caduti altresì dalla memoria dell’uomo in ossequio al dogma (occulto), il diritto di natura, la logica, (…) e la stessa economia quale scienza dei bisogni naturali.L’Uguaglianza (il secondo dogma, ndr), pone sul trono un re di smisurata e disincarnata tirannide: la formula statistica che serve a stabilire la media. L’uomo medio statistico diventa il Redentore, la cui imitazione è sollecitata e dovrebbe consentire ai singoli di espiare il peccato di possedere una fisionomia; guai a chi osa mai porre una domanda, provare un sentimento, svolgere uno studio, amare un’idea che a tale Redentore non paia accessibile e consumabile. Per definizione un uomo medio non può cogliere ciò che è raro, superiore, dunque prezioso; dovranno dunque essere immolati tutti i valori, i quali si giustificano sempre soltanto se imperniati sul loro vertice (la moralità deve mirare alla santità contemplativa, il linguaggio ai poemi, l’umanità al genio).
(…) Il motore immobile di questa giostra è un orgoglio minuto, angoscioso, offeso da qualsiasi presenza superiore, un pozzo di serpenti interiore.
Poiché si è sviluppata l’idea che codesto uomo medio, sprovvisto della metà delle sue facoltà innate, costituisca l’essere veramente umano ‘equilibrato, sano e normale’, va da sé che tale uomo, proprio a causa della sua insufficienza spirituale, neghi o consideri pazzia, superstizione o fantasticheria ciò che oltrepassi la sua ridotta facoltà fantastica. Il suo credo suona: ‘concedo realtà soltanto a ciò che io comprendo’. L’ultima conseguenza sarebbe: ‘perciò la creazione del mondo è opera mia’. Fin dalla puerizia l’uomo moderno è allenato a paragonarsi a tutti, quindi a denigrarsi e a denigrare per mantenere intatto l’equilibrio dell’invidia universale.
Una conseguenza di questo dogma ugualitario è il disprezzo ostentato verso il gusto, quasi fosse concepibile senza di esso una moralità talché ‘si considera l’estetica uno studio speciale laddove è la chiave delle verità soprannaturali’. (…) Chi ama il brutto in un tempo in cui mille capolavori possono avvertire e raddrizzare il suo gusto, non è lungi dall’amare il vizio, e chiunque sia insensibile alla bellezza potrebbe benissimo disconoscere la virtù.
Il terzo dogma è quello dell’attivismo perenne e totalitario.Come evocare nel pieno d’un millennio in cui gli uomini si riducono con le loro mani a fenomeni sociali, la vita che trovava, grazie a un vero Testo, la sua forma? Come far intendere che il testo sacro è la pietra su cui possono fondarsi la libertà e la conoscenza?
Si è pronti oggi a rammentare che il Testo avvallò eccidi e frodi. Ma eccidi e frodi avvengono con o senza quell’avvallo. Critica o sacrale che sia la nota dominante della tonalità, il male, la dissonanza, avrà la parte che gli compete in ogni canto.
Ma il Testo fascinoso e tremendo si paragonerà bene a uno scudo, a una cinta di mura: non esclude i contagi, né i morbi, né le manie, rinserra lotte e frodi. Non gli si chieda ciò che non può dare, l’Eden.
E’ suo ufficio assicurare un riferimento, un criterio di sanità, un limite che, se mai si valichi, si sappia di valicare. E’ molto, come ben sa chi vive senza centro, è un dono divino anche se non è la panacea, non è un giubileo che cancelli il debito contratto nascendo.Lo paragoneremo a una porta, o forse meglio a una botola, che, aperta, mostra il cielo a chi è chiuso nella prigione.
Lo paragoneremo a una melodia che inebria il pacifico ascoltatore, ma che potrebbe anche, senza sua colpa, servire da bordone al canto dell’assassino o del truffatore.
Ma si è dimenticato quasi del tutto quel che era la Sacra Scrittura.
Non un libro qualsiasi, ma uno che l’esperienza millenaria dei più illuminati assicurava si potesse accostare come oracolo.
L’intimità con una Scrittura è quasi irriferibile, in un’epoca che non sa nulla dell’esperienza di una lettura sacra. Ma, a questa segretissima stanza, l’accesso è ben vigilato; lo è, in più, oggi, dal salutare cane da guardia del ridicolo, posto dalla civiltà della critica a sorvegliare le sue frontiere ma che, essa lo ignora, serve soprattutto a custodire i tesori dei Sacri Testi. Chi infatti si lascia intimidire dal ridicolo, dal timor del mondo, è bene volga indietro i suoi passi. (…)..'Tratto da: Elemire Zolla, Che cos’è la Tradizione. Ed. Bompiani 1968 – ried. Adelphi 1998
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'Civiltà della critica e civiltà del commento. I due opposti mondi o imperi millenari propongono all’uomo beni opposti.
Un testo sacro offre criteri certi di moralità e di ordine, ascesi e severità, prescrive canoni all’artista e al mercante.
La civiltà critica porge l’opposto; ma la somma di gioie e di dolori sembra uguale nell’una e nell’altra. Pace e ordine sono beni effimeri sotto l’imperio di un testo, libertà e piaceri sono immaginari nell’imperversare della critica.
Il tiranno tanto sa glossare un testo quanto sa eccitare con motti libertini; può cingere ammanti sacerdotali come vestire con la semplicità spedita del sofista . L’uno e l’altro assetto mentono quando promettono ciò che la natura ferita dell’uomo non ammette. La civiltà della critica comunque farà soffrire, perché l’uomo (come ogni essere finito) ha bisogno di certezze, di apodissi e di deduzioni, di cause finali e d’un centro su cui ruotare come un pianeta intorno al sole. Egli è assai simile alle carpe che godono e s’irrobustiscono ad avere una pietra posata al centro del loro specchio d’acqua, intorno a cui volgere giri su giri armoniosi.
La civiltà del commento d’altronde non riuscirà mai a incardinare l’uomo interamente, a elevare la città terrena sul modello della celeste, perché dovrà pur sempre investire una fragile carne di autorità, una effimera materia visibile di un mandato celeste, dovrà trasformare l’intuito dell’eterno in discorso, il criterio metafisico in sistema giuridico.
Ma si sforza a un impossibile anche la civiltà della critica: essa vagheggia un Eden di uguali, avendo in invidioso odio la gerarchia, e immagina che quivi gl’impulsi si sfrenino senza ceppi secondo armonia o secondo caos, che comunque nessuna autorità vi faccia pesare una condanna morale sul male. Dagli affreschi di Giulio Romano nella Palazzina del Tè di Mantova, da certe tele di Rubens questo miraggio libertino ci guarda, e nell’ottocento Fourier tenterà di immaginare le regole con metodici deliri. I politici tenteranno di convocare moltitudini che rappresentino in carne ed ossa questo sogno; come nella Roma imperiale la plebe visse oziosamente fra vizi, elargizioni di cibi e spettacoli, così oggi Galbraith va cercando la formula legislativa ed economica che consenta di far rivivere consimili immani torme moderne. L’uomo pena nella civiltà della libera critica perché ha in sé uno spirito la cui repressione costa fatica, pena nella civiltà del commento perché non c’è vita sociale senza istituzioni giuridiche e queste incarcerano nella finzione. Il Cristo non promise imperi visibili e un suo apostolo assicurò che la catastrofe si scatenerà allorquando tutti diranno ‘pace e sicurezza’.
I cristiani dunque non avrebbero mai dovuto illudersi di far durare una teocrazia terrena perfetta (oh oxymoron!), neanche quando tutte le leggi erano emanate in nome della Trinità e le case si stringevano attorno alla cattedrale. In verità la civiltà del commento non medica la natura umana. Però fornisce certi canoni, fa conoscere un fine e un modello che l’altra ignora.
Dà all’uomo forme perfette, eleva le sue gioie e i suoi dolori. Inoltre essa proclama palesemente il suo Testo, l’altra viceversa nasconde di averne uno: il Testo Sacro occulto ma noto, non enunciato ma operante della civiltà attuale, è un’insieme di asserzioni costrette in uno schema, che però ognuno può variare o sostituendo con sinonimi le parole o trasformando gli aggettivi in sostantivi e viceversa. Si occulta la sacralità evitando di darne letture solenni e canoniche, ma immettendone regolarmente nel flusso delle chiacchiere quotidiane le asserzioni, martellandole senza parere. Basta che la parola esprima una negazione: il ripudio del criterio di discriminazione tra bene e male e la rinuncia a precisare la causa finale: tutto dev’essere un fluire, un incalzare che non si sa dove vada a parare, una corsa nella notte; bene è il correre, male è soffermarsi, malissimo voler sapere dove si va e perché ci si vada.
Essa innalza sull’altare (…) fatti umani, mortali, provvisori, oggetti che suggeriscono la polemica, la discussione, la labile contemporaneità, la ricerca che ‘inquieta’, l’esperimento ‘sofferto’, (…) e ci si domanda come possano non uccidersi i suoi seguaci, i quali sotto questo orribile imperio non hanno più motivo di procreare, se alle generazioni future non hanno nulla da trasmettere che non sia condannato a farsi superare; non hanno motivo di edificare, se ogni cosa sussistente va demolita e rifatta (…). Per religione costituita s’intende un edificio sociale fondato sulla riverenza interiore collettiva verso un oggetto non esauribile mediante discorsi dialettici., che si denomina diabolico se il suo culto genera turbamento e furia, divino se viceversa profonde pace, insegna l’accettazione e la trasformazione del dolore, l’adeguamento a forme armoniose.
Il mondo moderno ha la sua religione, cui ogni altra è costretta a piegarsi, ed è il culto della scienza, oggetto di muto ossequio. I suoi sacerdoti, gli ‘esperti’, non hanno bisogno, salvo eccezione, di ricorrere al braccio secolare per riscuotere decime e omaggi e obbedienza dal volgo e, come quasi ogni clero, coi potenti stanno in un rapporto raramente di parità, spesso di sottomissione astiosa. (…) La scienza è l’accertamento e la misura di regolari eventi e l’enunciazione di ipotesi intorno ad essi: perché adorarla? Non è in grado di cogliere la verità, la quale non può essere ipotetica, né intuire lo scopo della vita. Certe realtà non si guadagna nulla infine a misurarle, come l’arte, la santità, che l’ipotesi non può spiegare, ma solo immiserire (…).
Il culto della scienza è politeistico e idolatra. Politeistico perché la Scienza è le scienze; idolatra perché l’oggetto del culto è opera umana. Esiste poi una sfera intermediaria di devozioni tributate a divinità non del tutto rispettabili, perciò ritenute talvolta superstiziose, con frode investite del nome ‘divino’ di scienze: la psicoanalisi, la critica d’arte moderna, la sociologia e altrettali. I loro sacerdoti non godono di un riconoscimento garantito da parte dello Stato, e vivono, gli psicoanalisti del prestigio che riescono a riscuotere presso i malati di mente, i fautori d’arte moderna della concordia fra venditori di rifiuti, i sociologi della scarsa conoscenza della storia nel mondo odierno.
Un territorio malcerto, quale ogni religione deve tollerare (…).
La religione della scienza ostenta una serie di opere di bene a proprio credito. Ma come valutare i beni senza porne una misura, il bene? La scienza stessa non sa fornire alcun criterio poiché rifiuta ogni discorso sui fini, questo infatti necessariamente dovrebbe trascendere il regno dei mezzi che essa proclama unico e sovrano. Il benessere non è il bene, ma nessuno osa meditare l’assurda identificazione delle due cose su cui poggia tutta la civiltà scientifica; l’atteggiamento del fedele antico privo d’iniziazione dinanzi a dogmi inafferrabili, che egli non poteva, né doveva approfondire, si riproduce così senza apparenti varianti.
L’uomo adora le scienze, ma è lecito dire che ne tragga nutrimento? Che tutto il suo essere ne sia conformato? Tuttora l’uomo s’aggira, in quanto vivo, nel cosmo dei suoi padri, vede ancora secondo i modi che trovano la loro formulazione più acconcia nella geometria euclidea e nella fisica classica, e su questo fondamento eleva una serie di ipotesi le quali ne sono la negazione e contraddizione. Ma che tuttavia le danno per scontate; così il telescopio o il microscopio presuppongono l’occhio disarmato, che pure negano, così l’esclusione del postulato delle parallele implica che quel fondamento appaia evidente (…).
L’artista, secondo il dogma del divenire, varrebbe per i motivi che lo rendono ‘scadente’, in quanto appare e non è, trascorre e non vige, provoca o segue una corrente invece di sollevarsi fuori dal gioco delle circostanze. Il dogma della storicità ha corroso l’arte, ambito che fra tutti pareva doverne restare immune, ma sono caduti altresì dalla memoria dell’uomo in ossequio al dogma (occulto), il diritto di natura, la logica, (…) e la stessa economia quale scienza dei bisogni naturali. L’Uguaglianza (il secondo dogma, ndr), pone sul trono un re di smisurata e disincarnata tirannide: la formula statistica che serve a stabilire la media. L’uomo medio statistico diventa il Redentore, la cui imitazione è sollecitata e dovrebbe consentire ai singoli di espiare il peccato di possedere una fisionomia; guai a chi osa mai porre una domanda, provare un sentimento, svolgere uno studio, amare un’idea che a tale Redentore non paia accessibile e consumabile. Per definizione un uomo medio non può cogliere ciò che è raro, superiore, dunque prezioso; dovranno dunque essere immolati tutti i valori, i quali si giustificano sempre soltanto se imperniati sul loro vertice (la moralità deve mirare alla santità contemplativa, il linguaggio ai poemi, l’umanità al genio).
(…) Il motore immobile di questa giostra è un orgoglio minuto, angoscioso, offeso da qualsiasi presenza superiore, un pozzo di serpenti interiore.
Poiché si è sviluppata l’idea che codesto uomo medio, sprovvisto della metà delle sue facoltà innate, costituisca l’essere veramente umano ‘equilibrato, sano e normale’, va da sé che tale uomo, proprio a causa della sua insufficienza spirituale, neghi o consideri pazzia, superstizione o fantasticheria ciò che oltrepassi la sua ridotta facoltà fantastica. Il suo credo suona: ‘concedo realtà soltanto a ciò che io comprendo’. L’ultima conseguenza sarebbe: ‘perciò la creazione del mondo è opera mia’. Fin dalla puerizia l’uomo moderno è allenato a paragonarsi a tutti, quindi a denigrarsi e a denigrare per mantenere intatto l’equilibrio dell’invidia universale.
Una conseguenza di questo dogma ugualitario è il disprezzo ostentato verso il gusto, quasi fosse concepibile senza di esso una moralità talché ‘si considera l’estetica uno studio speciale laddove è la chiave delle verità soprannaturali’. (…) Chi ama il brutto in un tempo in cui mille capolavori possono avvertire e raddrizzare il suo gusto, non è lungi dall’amare il vizio, e chiunque sia insensibile alla bellezza potrebbe benissimo disconoscere la virtù.
Il terzo dogma è quello dell’attivismo perenne e totalitario. Come evocare nel pieno d’un millennio in cui gli uomini si riducono con le loro mani a fenomeni sociali, la vita che trovava, grazie a un vero Testo, la sua forma? Come far intendere che il testo sacro è la pietra su cui possono fondarsi la libertà e la conoscenza?
Si è pronti oggi a rammentare che il Testo avvallò eccidi e frodi. Ma eccidi e frodi avvengono con o senza quell’avvallo. Critica o sacrale che sia la nota dominante della tonalità, il male, la dissonanza, avrà la parte che gli compete in ogni canto.
Ma il Testo fascinoso e tremendo si paragonerà bene a uno scudo, a una cinta di mura: non esclude i contagi, né i morbi, né le manie, rinserra lotte e frodi. Non gli si chieda ciò che non può dare, l’Eden.
E’ suo ufficio assicurare un riferimento, un criterio di sanità, un limite che, se mai si valichi, si sappia di valicare. E’ molto, come ben sa chi vive senza centro, è un dono divino anche se non è la panacea, non è un giubileo che cancelli il debito contratto nascendo. Lo paragoneremo a una porta, o forse meglio a una botola, che, aperta, mostra il cielo a chi è chiuso nella prigione.
Lo paragoneremo a una melodia che inebria il pacifico ascoltatore, ma che potrebbe anche, senza sua colpa, servire da bordone al canto dell’assassino o del truffatore.
Ma si è dimenticato quasi del tutto quel che era la Sacra Scrittura.
Non un libro qualsiasi, ma uno che l’esperienza millenaria dei più illuminati assicurava si potesse accostare come oracolo.
L’intimità con una Scrittura è quasi irriferibile, in un’epoca che non sa nulla dell’esperienza di una lettura sacra. Ma, a questa segretissima stanza, l’accesso è ben vigilato; lo è, in più, oggi, dal salutare cane da guardia del ridicolo, posto dalla civiltà della critica a sorvegliare le sue frontiere ma che, essa lo ignora, serve soprattutto a custodire i tesori dei Sacri Testi. Chi infatti si lascia intimidire dal ridicolo, dal timor del mondo, è bene volga indietro i suoi passi. (…)..' Tratto da: Elemire Zolla, Che cos’è la Tradizione. Ed. Bompiani 1968 – ried. Adelphi 1998 |
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