Nel settembre scorso su Accordo si è parlato di Jason Becker, menzionando l’uscita di un documentario dedicato alla sua vita. Classe 1969, questo ex enfant prodige è balzato alla ribalta coi Cacophony a soli 16 anni insieme a un altro virtuoso e amico, Marty Friedman, futuro chitarrista dei Megadeth. L’idea di accostare i due è stata di Mike Varney, talent scout delle sei corde e fondatore della Shrapnel Records («Fu l’inizio della Shrapnel e l’inizio dello shred come lo conosciamo oggi», dirà). Dopo un paio di dischi con la band, nel 1988 Becker ha pubblicato il suo primo lavoro solista, “Perpetual Burn”, che gli vale una convocazione alla corte di David Lee Roth, ex cantante dei Van Halen. All’epoca il ruolo di chitarrista nella lineup di “Diamond Dave” (tra l’altro appena lasciato da Steve Vai) era una delle posizioni più ambite nella scena rock, e con Lee Roth Becker inizia le registrazioni dell’album “A Little Ain’t Enough” (uscito nel 1989, poi disco di platino). Mentre si prepara per il tour che nelle sue aspettative (e non solo) lo avrebbe definitivamente consacrato come uno dei più grandi axeman del momento, gli viene diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica (morbo di Gehrig), malattia degenerativa del sistema nervoso che provoca la paralisi progressiva degli arti. Riesce a malapena a terminare le registrazioni del disco, ma non partirà mai per l’atteso tour.
«Perché sia ancora qui è qualcosa di più grande di ciò che chiunque possa sapere, ma è ancora qui». (Pat Becker, madre)
“Not Dead Yet” (trad. Non ancora morto) è un documentario uscito nel 2012 e ufficialmente disponibile in DVD dal mese scorso che narra l’incredibile vicenda di Jason Becker, ricordando al mondo che non solo è ancora qui, ma continua a fare musica. Una storia commovente, dunque, ma non triste: come suggerisce il titolo, Jason non è ancora morto, anzi, si ritiene fortunato. Quando a 19 anni i medici gli diagnosticarono il morbo, sentenziarono che non avrebbe mai più potuto suonare e che si sarebbe spento entro i 25 anni di età. Più di vent’anni dopo, invece, benché la malattia gli abbia tolto la facoltà di parlare e muoversi, continua a comporre grazie a un sofisticato software ideato da un collaboratore e comunica muovendo gli occhi, con l’aiuto costante dei genitori Gary e Pat, del fratello e degli amici, e con il supporto di innumerevoli fans in tutto il mondo.
Il lungometraggio di Jesse Viles ripercorre l’esistenza di questo talento grazie alle parole di chi ha vissuto con lui, con preziosissimi filmati e fotografie di famiglia e contributi di amici, collaboratori, giornalisti e musicisti (Joe Satriani, Steve Vai, Marty Friedman, Gregg Bissonette, Jimmy O’Shea, Kenny Stavropoulos e altri). Il senso di impotenza che procura l’immersione nella vicenda narrata dal documentario è letteralmente sormontato all’ammirazione che suscita la forza di questo artista, le cui parole lasciano a bocca aperta:
«Me ne sto seduto, ho da fare in questa vita. Mi piace, non soffro. Ho ancora così tanta passione, non solo per la musica, ma per le relazioni e gli amici. Voglio dire, la vita è piena di amore e divertimento. […] Non penso di essere speciale, penso di essere fortunato e i miei genitori mi hanno insegnato la magia della vita».
L'obiettivo del documentario, che ha già vinto diversi premi, è quello di sensibilizzare il pubblico sulla SLA e di celebrare e supportare Jason Becker nel far fronte alle costose cure. Allo stesso scopo, dal 2011 è stato ideato un festival che ha registrato la partecipazione di alcuni tra i più grandi chitarristi al mondo.
La visione è sconsigliata a chi non ha voglia di riflettere sul valore della vita.
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