L'8 dicembre del 1943 a Melbourne (Florida) nasceva James Douglas Morrison, a cui la sorte avrebbe riservato il paradosso di diventare una delle icone più popolari e al contempo uno degli artisti meno conosciuti della storia del rock. L'affermazione farà sussultare qualcuno, considerando la fama di cui godono i Doors dopo più di quarant’anni dalla prematura morte del loro leader, ma è un’incontestabile verità: Morrison viene ricordato quasi esclusivamente come il trasgressivo frontman di una delle band americane di maggior successo dei tardi anni ’60, mentre rimangono in ombra alcuni degli aspetti più interessanti del suo lavoro e della sua vicenda. In occasione del settantesimo anniversario della sua nascita, vogliamo celebrare l’artista Morrison scardinando alcuni dei luoghi comuni più diffusi sul Re Lucertola.
Morrison è a tutt’oggi una figura molto amata dai più giovani perché emblema della ribellione e della trasgressione. L’aver vissuto gli ultimi anni della sua vita da vero bohémien allo sbando ha portato molti a pensare che le sue radici affondassero in un passato misero e tumultuoso. In realtà, Morrison proveniva da una famiglia borghese ed era il primo dei tre figli dell’Ammiraglio George Stephen Morrison e di Clara Clarke. Cresciuto nel rigore di una “famiglia militare”, Jim conobbe un’infanzia nomade, segnata da continui spostamenti dovuti alla carriera del padre. Non potendosi permettersi il lusso di legarsi a nessuno, le uniche costanti in quei difficili primi anni di vita senza radici furono gli infiniti viaggi in auto, la preziosa compagnia della musica e il suo rifugio preferito: i libri. Jim fu da subito un lettore voracissimo e assetato di sapere, ma a scuola così come a casa era poco incline alla disciplina e al compromesso. Le ferree regole da rispettare andavano in frantumi a contatto coi sogni che scaturivano dai libri e la scelta di sottrarsi al destino scritto nel copione famigliare - come pure la rottura con i genitori - fu il frutto di una scelta drastica che lo portò a rinunciare a notevoli privilegi e a intraprendere un percorso altamente incerto pur di perseguire le proprie aspirazioni artistiche.
Morrison, che nel più becero dei luoghi comuni talvolta viene ancora ricordato come un fantoccio dalla mente costantemente obnubilata dai fumi dell’alcol, era in verità una persona brillante, incredibilmente acculturata che incantava ogni sorta di interlocutore. Gli amici ricordano che alle superiori, con un quoziente intellettivo di 149 (“intelligenza superiore”), si dedicava incessantemente alla lettura, dai simbolisti francesi agli eroi della Beat Generation, da Norman Mailer a Nietzsche, da Sade a William Blake a trattati di demonologia del XVI secolo, e annotava riflessioni nei suoi inseparabili taccuini. Non c’era nulla che osservasse e che non venisse passato al vaglio, immagazzinato e rielaborato, per poi ricomparire, magari, in una composizione anni dopo. Cominciò a scrivere poesie da bambino, ma fu proprio con l’appassionato studio dei suoi beniamini (tutti letterati) che affinò i propri mezzi espressivi e gettò le fondamenta di un personalissimo universo artistico, che traeva spunto dall’esperienza dei primi anni di vita: nei suoi scritti compaiono paesaggi desertici, rettili, la strada, un solitario hitchhiker (autostoppista), figura minacciosa di viaggiatore esistenziale che lo ossessionerà per il resto dei suoi giorni, comparendo in seguito in ogni forma artistica abbracciata da Morrison. E poi il mondo degli Indiani d’America, con cui entra bruscamente a contatto da bambino, imbattendosi in un incidente nel quale morirono diversi Pueblo, le cui anime, disse, si impossessarono di lui. Che fosse vero o meno, albergheranno nella sua arte per sempre.
Un trend bizzarro è, poi, quello che vuole Morrison come poetucolo da strapazzo, autore di strampalati versi perlopiù privi di significato. Questo fenomeno, tra l’altro, ha assunto contorni grotteschi proprio nel nostro paese, dove il Morrison-poeta viene ricordato prevalentemente per una serie di banalissimi aforismi che non ha mai scritto. È sufficiente, infatti, cercare una traduzione inglese degli stessi per scoprire che non esiste; insomma, sono una creazione made in Italy. Morrison ha iniziato a scrivere poesie da bambino e ha smesso nel momento in cui è morto. Ha sempre considerato la poesia come la propria occupazione primaria anche negli anni della ribalta coi Doors, e ha concluso la sua vita ritirandosi a Parigi nel disperato tentativo di accantonare lo show business che lo aveva prosciugato e di dedicarsi ai suoi scritti a tempo pieno. Sfortunatamente è morto a 27 anni, riuscendo a vedere pubblicate soltanto due raccolte, The Lords e The New Creatures, lasciando centinaia e centinaia di pagine inedite, soltanto alcune delle quali sono state poi raccolte in due ulteriori volumi postumi (The American Night e Wilderness, curati dall’amico Frank Lisciandro). Il corpus poetico di Morrison è imponente, incredibilmente affascinante e prezioso, e rivela un lavoro costante e una crescita che fanno rimpiangere il fatto che se ne sia andato proprio nel momento in cui stava diventando un artista maturo. Quello di Morrison è un personalissimo universo poetico che attinge da simboli ancestrali e immagini naturali così come dai neon della metropoli moderna, dalla purezza dell’infanzia allo squallore della prostituzione, dalla magia e dalla trascendenza alle bassezze dello show business e molto altro, il tutto sapientemente sigillato in parole cariche di significato, sapientemente scelte. Alcune di queste poesie sono state registrate in fasi successive, rivelando, oltre tutto, un’incredibile attenzione di Morrison per la dizione e l’interpretazione nella lettura poetica. Insomma, era un vero word man, definito dal poeta beat Michael McClure (e non solo) il più grande poeta della sua generazione.
L’atteggiamento trasgressivo di Morrison e la fortuna dell’immagine legata alla sua indubbia avvenenza - perlomeno negli esordi, quando venne definito “la bambola Barbie definitiva” - hanno senza dubbio eclissato altri aspetti ben più rilevanti della sua carriera di musicista. Coi Doors realizza sei album in studio usciti tra il ‘67 e il ‘71. Ascoltandoli, da un punto di vista squisitamente canoro, risulta difficile capire come possano passare inosservate le sue doti di interprete: anello di congiunzione ideale tra i suoi idoli (Frank Sinatra e Elvis Presley), dotato di una stupenda voce baritonale, coniugava le doti del più delicato dei crooner con quelle del più aggressivo degli screamer rock, passando per le malinconie alcoliche di un consumato bluesman, con un ventaglio espressivo incredibilmente ampio per un ragazzo senza esperienza, strappato dalla spiaggia di Venice e sbattuto in vetta alle hit parade nel giro di pochi mesi. Parlando, invece, delle sue doti di songwriter, curiosamente Morrison continua a esser considerato “quello di Light My Fire” (che tra l’altro non è una sua canzone), mentre brani epici in cui riecheggiano le sue sterminate letture e si riversano fitti richiami al suo percorso personale, formativo e artistico rimangono perlopiù ignoti o incompresi.
Alcuni concerti dei Doors vengono ricordati come megarisse generate dall’alto tasso lisergico di artisti e pubblico. C’era, invece, molto più di questo, che ci crediate o no. Da studente alla Florida State University, Morrison si interessò alla sociologia e alla psicologia di massa; nei suoi taccuini prendeva appunti sulle teorie di Riesman sui limiti imposti alla libertà individuale dalla cultura di massa, di Canetti sul rapporto performer/pubblico e di numerosissimi altri, e scrisse anche un saggio sulle nevrosi sessuali delle masse, trattando peraltro l’argomento dell’uso del mezzo musicale per risvegliare le energie sessuali del pubblico. Come se non bastasse, in seguito, appassionatosi di teatro, fece proprie le teorie di Antonin Artaud e il suo Teatro della Crudeltà e del Living Theatre. Non sorprende che dall’inquietante file aperto dall’FBI su Morrison e poi desecretato sia emersa proprio la pericolosità del leader manipolatore di masse. Morrison è stato un frontman rivoluzionario e tracce delle sue teorie sul concerto rock sono disseminate in interviste e dichiarazioni che, condivisibili o meno, tradiscono una lucidissima concezione del proprio ruolo di sciamano elettrico. Ma gli interessi di Morrison non finiscono qui. Laureatosi in cinematografia alla UCLA nel 1965, il suo sogno era di diventare regista. Con alcuni amici e collaboratori fonda la HiWay Productions (da “highway”, autostrada), compagnia di produzione cinematografica con la quale realizzò due lavori: Feast of Friends (documentario sui Doors) e, nel 1969, approfittando di una pausa per il processo per atti osceni in seguito a un concerto tenuto a Miami, il suo film sperimentale HWY: An American Pastoral, che ripropone in versione filmica tutte le figure chiave della imagery delle poesie di Morrison. Si tratta, infatti, della storia di un autostoppista misterioso che si muove tra paesaggi desertici fino ad approdare in una metropoli.
Anche volendosi limitare a queste poche osservazioni, appare evidente che Morrison sia ingiustamente naufragato in un mare di luoghi comuni. Nella storia del rock non esiste un caso analogo di ignoranza, di mala interpretazione o di esplicita distorsione dei fatti, e Morrison stesso, parlando dei Doors, affermò “We’re the band you love to hate” (siamo la band che vi piace odiare, n.d.r.). Il concetto, va da sé, è estensibile al suo lavoro di poeta e regista. Se un tempo risultava più difficile reperire materiali e informazioni, alla luce della mole di dati disponibile oggi, appare incomprensibile che un artista di questo calibro (i cui scritti sono stati trattati in dipartimenti di studi letterari di svariate università nel mondo) venga ricordato dal grande pubblico più per gli episodi di ubriachezza molesta – benché numerosi – che non per i suoi lavori. A 70 anni dalla sua nascita e a 42 dalla sua morte è giunto il momento di riconoscergli lo status che gli spetta. Morrison è una delle più grandi leggende del rock di tutti i tempi, ma ancor prima è un Artista. Cosa ci lascia? Un universo in buona parte da scoprire, fruibile attraverso le sue poesie, le sue canzoni, le sue immagini e le sue riflessioni, frutto di una dedizione e di una rielaborazione costanti. Questa non è una canzone d’amore, ma un doveroso tributo e, soprattutto, un invito da parte di chi ha avuto il privilegio di addentrarsi in quel reame a fare altrettanto.
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