di LaPudva [user #33493] - pubblicato il 16 gennaio 2014 ore 07:00
Uno dei dischi più attesi dell'autunno 2013, Lightning Bolt segna il ritorno dei Pearl Jam in studio dopo quattro anni di silenzio. Pareri discordanti e critiche pesanti non si sono fatti attendere, ma un ascolto più ragionato può far emergere lati inaspettati.
Uno dei dischi più attesi dell'autunno 2013, Lightning Bolt segna il ritorno dei Pearl Jam in studio dopo quattro anni di silenzio. Pareri discordanti e critiche pesanti non si sono fatti attendere, ma un ascolto più ragionato può far emergere lati inaspettati.
L'attesa del nuovo disco di un gruppo cult solitamente è caratterizzata da aspettative talmente alte e diversificate in base al rapporto che le varie categorie di ascoltatori hanno instaurato con la band nel corso della sua carriera che è quasi impossibile accontentare tutti o anche semplicemente la maggior parte. Lightning Bolt, il decimo disco in studio dei Pearl Jam, in particolare, era uno dei dischi più attesi dell’autunno scorso, tanto più che l’intervallo dall’uscita del penultimo lavoro, Backspacer (2009), è stato più lungo rispetto a quello che ha separato le precedenti uscite. Neanche a dirlo, il poco nitido orizzonte di attesa verso il quale negli ultimi quattro anni hanno navigato migliaia di ascoltatori in tutto il mondo deve essersi infranto contro questo solido disco rock, perché un'ondata di critiche negative si è riversata sul web quasi subito dopo la sua uscita, lo scorso ottobre.
Se parte delle critiche in questione ha un fondamento, è altamente ingiusto bollare come fallimentare un'uscita che, pur non rispondendo alle aspettative, è complessivamente un buon lavoro rock. Molto spesso l’urgenza della recensione (o del semplice commento) non dà ai lavori il tempo di decantare e all'orecchio di apprezzarne troppi aspetti che ne costituiscono invece il valore.
Questa recensione volutamente tardiva giunge dopo un paio di mesi di ascolti e, ammetto, sarebbe stata molto diversa se scritta in ottobre. La reazione al primo ascolto del disco ha suscitato sentimenti contrastanti, per una serie di motivi. Prima di tutto, il disco è stato anticipato da due singoli che hanno dato un'impressione falsata del lavoro: "Mind Your Manners", forse il pezzo più "tirato", riporta la band alle radici più grezze della loro musica, con un punk divertente che può far pregustare un paio di minuti di godimento live, ma che lascia perplessi se si considera che è stato scelto tra le tante tracce come anticipazione sulla release del disco, perché sicuramente non lo rappresenta, né è tra i brani più interessanti. "Sirens" (di McCready e Vedder, pezzo di cui più di tutti si dicono fieri, tra l'altro), invece, è una power ballad sulla caducità delle cose e delle relazioni, impreziosita da chitarra acustica e piano. Sostenuta dall'interpretazione stupenda di Eddie Vedder, è sicuramente una delle canzoni più riuscite, benché nella sostanza non sia nulla di nuovo. Insomma, due anticipi non esaltanti, anche se piacevoli.
Poi arriva il disco e fin dal primo brano tutto viene messo in prospettiva, inclusi i summenzionati singoli. Evidentemente è proprio la prospettiva a essere cambiata, ed è fisiologico. Chi si ostina ad aspettarsi dischi alla Vs. o alla Vitalogy non può che rimanere deluso da Lightning Bolt, ma dovremmo rammentare che quelle sono uscite di vent'anni fa, e la transizione tra i 30 e i 50 anni di età, come affermano gli stessi Pearl Jam nelle videointerviste pubblicate online, implica molti mutamenti: i rocker di Seattle oggi hanno famiglia, la loro vita è cambiata anche a livello pratico, e con essa la loro musica, che oggi pare più volta a un sano divertimento che all'esplorazione delle cupe lande dei primi anni. A tal proposito "Getaway", il primo pezzo del disco, pare mettere i puntini sulle i: un classico 4/4 (che raddoppia nell’inciso) che, in risposta a chi pensa di poter dare lezioni di vita al prossimo - ma si direbbe anche in campo musicale, "Oh, that's what that singing is about" (Oh, ecco cos’è tutto quel cantare, n.d.r.) - sentenzia "Ho trovato la mia strada e va benissimo così". Pezzo rock semplice, lineare e grezzo.
Di "Mind Your Manners" abbiamo già accennato sopra, e a proseguire l'esplosivo trittico di apertura c'è "My Father's Son", inquietante rock ad alto contenuto caustico sul legame genitori/figli, tema caro a Vedder, che qui dà una delle sue performance migliori del disco, secondo Stone Gossard. A seguire "Sirens" (vedi sopra) e poi la titletrack. È proprio questo, secondo me, il brano in cui Vedder dà il meglio di sé, trascinando l’ascoltatore a surfare tra le dinamiche di un bel brano rock che parla dell’amore fulminante per una donna-saetta, in un crescendo costruito ad hoc da questa band di veterani decisamente dotati di mestiere.
"Infallible" ci mette di fronte a una riflessione sull'immensa presunzione umana, con un brano cupo costruito su strofe quasi eccessivamente cadenzate, che portano all’apertura più positiva e orecchiabilissima nel ritornello. Uno tra i pezzi forse meno interessanti e più easy, "Infallible" è seguito da "Pendulum", uno "scarto" del disco precedente. Il brano, scritto a tre mani da Vedder, Gossard e Ament, è un’altra riflessione sull’imprevedibilità dell’oscillante sorte umana. Malinconico, introspettivo e onirico, è sicuramente uno dei più suggestivi dell’album, con un arrangiamento scarno che nella sostanza replica gli stessi pochi accordi su un unico ripetitivo groove, in cui si inserisce la batteria di Cameron sul finale. Ipnotica.
"Swallowed Hole" è un brano pop-rock che a tratti pare ricordare più i REM che i Pearl Jam, e che tematicamente tratta di un rinnovato benessere nella comunione con madre natura. Più interessante e piacevole "Let the Records Play", brano di Gossard che oscilla tra il rock-blues e il country-western. Un bel tiro per uno dei pezzi più accattivanti dell’album.
A seguire, "Sleeping By Myself", brano già interpretato da Vedder nel suo disco solista del 2011, Ukulele Songs, qui riproposto con la band. Uno dei pezzi che ha fatto maggiormente storcere il naso, probabilmente per l’insolita dolcezza ninnanannesca che lo pervade, lungi dalle atmosfere cupe alle quali i Pearl Jam ci hanno abituati in passato. Eppure sarebbe davvero piacevolissima se per un attimo volessimo dimenticarci chi la interpreta.
Inizialmente scartata dalla tracklist, "Yellow Moon" è stata inserita nel disco per volere del chitarrista Mike McCready. Una ballata tradizionalissima ma con un'insolita divisione ritmica in 11/8 nelle strofe, il brano dipinge la luna come imperturbabile testimone di avventure e sventure umane.
Chiude il disco "Future Days", delicatissima ballad acustica - abbellita dal piano di Brendan O’Brien e dal violino di Ann Marie Calhoun - che ha ricevuto molte (troppe, a mio avviso) stroncature. Scritta da Vedder, parla del futuro di un amore, che durerà nonostante le intemperie della vita, chiudendo su una nota positiva l’intero album. Criticata perché molto più affine ai lavori solistici di Vedder che non a quelli dei Pearl Jam, è un brano davvero emozionante nella sua semplicità.
Rifacendoci alle critiche mossegli per tirare delle conclusioni, Lightning Bolt non è un disco spettacolare, ma non si può dire che non sia un lavoro valido. È fisiologico che ciò che un tempo era alternativo oggi si sia evoluto in qualcosa di diverso e persino di "classico" per certi versi, ma anziché orrore, dovrebbe suscitare ammirazione il fatto che questo shift abbia avuto luogo preservando l'integrità dei musicisti. Sicuramente se il disco non fosse uscito a nome Pearl Jam sarebbe stato valutato con più obiettività, più leggerezza e meno aspettative.
Il solco nel quale complessivamente si inserisce il disco è quello del classic rock, ma con occasionali fughe dovute ai gusti e agli influssi dei diversi autori dei brani, il che si riflette in una certa varietà di sfumature, come abbiamo visto. Tutta questa varietà, però, non sfibra l’unità del disco, anzi, sembra arricchirlo di suggestioni che forse non si apprezzano immediatamente. Laddove i pezzi erano più deboli, inoltre, l'interpretazione di Vedder, il mestiere dei PJ e i bei suoni hanno fatto egregiamente il resto, portando le tracce sempre oltre il livello di accettabilità. Nella mia esperienza personale, non è stata una conquista al primo colpo, ma per successivi ascolti, per una sorta di sedimentazione che ha finito col farmene apprezzare la qualità fondamentale: la semplicità. Mentre io mi avvicino alla quarantina, loro si avvicinano alla cinquantina ed evidentemente da ambo le parti della custodia del disco abbiamo smesso di ambire ai capolavori: non mi sorprende che questo disco abbia deluso le aspettative di molti, perché non ci sono singole tracce memorabili come ai tempi dei summenzionati Vs. e Vitalogy. È "solo" un disco di rock vecchia scuola, nella direzione intrapresa già con Backspacer, con un Eddie Vedder più strepitoso che mai.
Prendere un’altra direzione non significa necessariamente fallire e l’impressione è che i Pearl Jam siano perfettamente a proprio agio in questa nuova fase della loro crescita. Il loro cambiamento di rotta è una fruttuosa evoluzione: è preferibile, infatti, un’onesta virata verso forme più tradizionali e toni più ottimistici che l’ostentazione di una rabbia evidentemente svanita in vent’anni di carriera e di vita.