Mentre l’Italia è in lutto per la recente scomparsa di Pino Daniele e il mondo intero piange ancora la dipartita di Joe Cocker, alcune notizie dal mondo della musica passano in secondo piano. Forse per via del fatto che nel nostro Paese non ha mai goduto dello stesso successo che hanno altri chitarristi, la notizia della morte di Jeff Golub, avvenuta il 1° gennaio scorso, ha trovato poco spazio sulle nostre testate di settore, né si è diffusa a macchia d’olio sul net, rimanendo circoscritta perlopiù alla stampa americana e alle pagine web di amici e collaboratori. Io stessa l’ho appresa con qualche giorno di ritardo, quando, recandomi sul suo profilo Facebook per sincerarmi del suo stato di salute, al posto di un aggiornamento da parte della famiglia ho trovato una lunga serie di tributi dei fans in lutto. Il dispiacere è stato immenso, perché è un artista che ho sempre apprezzato non soltanto per le indubbie doti artistiche ma anche per la classe che lo ha sempre contraddistinto nello showbiz. La mia frequentazione con la musica di Golub risale a circa 26 anni fa. Un carissimo amico di New York aveva da poco assistito a un live di Rod Stewart e, durante un viaggio in Italia, mi regalò il primo disco solista del suo chitarrista, che a suo dire era stato eccezionale. Il disco era “Unspoken Words” di Jeff Golub, da poco uscito per Gaia Records. All’epoca ero una tredicenne poco avvezza alla musica strumentale, eppure il blend di quell’album era irresistibile e metteva ampiamente in risalto le doti dell’axeman: grande versatilità, gusto sopraffino, soli vibranti e ritmiche solide in una carrellata di brani che abbracciavano agilmente più generi, dal rock al blues al jazz.
Incuriosita, mi misi istantaneamente alla ricerca di informazioni (cosa non semplice in epoca pre-internet), per scoprire che Golub era nato a Copley, Ohio, nel ’55. Appassionato fin da bambino del programma radiofonico di musica country trasmesso da Nashville, “Grand Ole Opry”, negli anni ’60 si fece travolgere dalla British Invasion e poco più tardi trovò i suoi “maestri” in Clapton, Beck e Hendrix, ma soprattutto in Muddy Waters, Buddy Guy, B.B., Albert e Freddie King. Eppure si dice sia stato l’ascolto di un disco di Wes Montgomery a spingerlo a intraprendere uno studio sistematico dello strumento, cosa che fece al Berkley College of Music di Boston. In quel periodo entrò a far parte della James Montgomery Band, per poi trasferirsi definitivamente a New York nel 1980. Qui entrò in pianta stabile nella band di Billy Squier, all’epoca artista di successo. Con lui intraprese diversi tour mondiali e registrò ben sette album, avviando in contemporanea una fortunata carriera di turnista: lavorò in studio e live con artisti del calibro di Tina Turner, Vanessa Williams, Gato Barbieri, Bill Evans e Peter Wolf. Poi l’esperienza nella band di Rod Stewart, con cui suonò dal 1988 al 1995, aprendogli la strada a numerose nuove collaborazioni, tra cui ricordiamo quelle con Bill Evans, Rick Braun, Tina Turner, Dar Williams, Brian Culbertson, Gerald Albright, Henry Butler, Jon Cleary, Marc Cohn, Richard Elliot, Robben Ford, Sonny Landreth, Jeff Lorber e Peter White.
Insomma, un turnista di tutto rispetto, che però a un tratto decise coraggiosamente di abbandonare il suo affermato ruolo di sideman per dedicarsi alla carriera solista. Così, dal 1994, con l’uscita del primo disco eponimo della band da lui capitanata, “Avenue Blue”, ha registrato ben quattordici album in studio, classificati perlopiù come dischi di smooth jazz. Se questa etichetta è sufficientemente ampia da rendere conto dei risvolti più pop e R&B dei suoi lavori, non mette però sufficientemente in risalto la forte impronta blues che contraddistingue il chitarrista, soprattutto in alcuni lavori: un marcato gusto per i bending, l’uso del vibrato, fraseggi dal forte calco vocale più che strumentale, insomma, come lui stesso ha affermato «un approccio più bluesy alla Albert King che non alla Wes Montgomery», coniugando rispettosamente passato e presente, in forme perfettamente accessibili anche a un pubblico meno elitario.
Questa ricchissima miscela di influenze e la grande verve che caratterizzava le sue performance live e che si ritrova intatta in tutti i suoi lavori mi hanno sempre reso graditissimo l’ascolto dei suoi dischi, tanto delle sue composizioni quanto delle numerose reinterpretazioni di brani altrui. Ho sempre trovato eccezionale la sua capacità di cavalcare i mood più dissimili e di trovare continuamente nuovi territori da esplorare, attingendo costantemente dalla propria esistenza. Se la vita gli ha generosamente elargito doti, gli ha anche riservato un destino crudele, affrontato con incredibile dignità e forza d’animo: nel 2011 Jeff ha improvvisamente – e all’epoca inspiegabilmente – perso la vista per il collasso del nervo ottico. La cecità, tra le altre cose, gli ha causato un terribile incidente, quando nel settembre del 2012 è caduto tra le rotaie della metropolitana di New York, venendo trascinato dal convoglio per svariati metri, ma rimediando solo qualche ferita superficiale. La perdita della vista, però, non ha mai intaccato il suo desiderio di suonare: «Fortunatamente la mia è una delle poche professioni in cui me la posso cavare senza la vista. [La cecità] mi ha reso un artista migliore. Mi ha fatto spalancare le orecchie e ora sento le cose più intensamente. Mi ha messo a stretto contatto coi miei sentimenti e col mio pubblico. Il mio pubblico mi ha dato un supporto incredibile». L’incredibile esperienza dell’incidente, anziché spingerlo a fermarsi, ha dato vita a quello che sarebbe stato il suo ultimo disco, dal titolo eloquente, “Train Keeps A Rollin”, realizzato nel 2013 con Brian Auger, ma il peggioramento delle sue condizioni fisiche lo ha obbligato a un arresto proprio quell’anno. Lo scorso novembre su Facebook, infine, la sentenza che non ha lasciato speranze: gli è stata diagnosticata la paralisi sopranucleare progressiva (PSP), malattia neurodegenerativa rara e incurabile che lo ha condotto alla morte a soli 59 anni all’inizio di quest’anno, lasciando sgomenti colleghi e fans che lo ricordano come un grande sia sul versante professionale che su quello umano. Jeff Golub ci lascia dopo una carriera più che trentennale, con il dispiacere per molti da questa parte del mondo di non aver avuto la chance di ascoltarlo dal vivo ma anche con un’ampia discografia da (ri)scoprire. Per me rimarrà sempre l’interprete di “North Shore Drive”, colonna sonora di una delle estati più belle della mia vita. Un pensiero e un ringraziamento a lui. Il 21 gennaio prossimo, presso il B.B. King's Blues Club & Grill di New York, si terrà un concerto in suo onore con la partecipazione dei “Friends of Jeff Golub”, tra cui Mindi Abair, Christopher Cross, Steve Ferrone, Randy Brecker, Bill Evans, Philippe Saisse, Dave Koz, Chuck Loeb, Kirk Whalum e altri amici e colleghi, al fine di raccogliere fondi per sostenere le ingenti spese mediche che la famiglia Golub ha dovuto affrontare. È possibile donare anche via Paypal accedendo a questo link.
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