Sono una delle più grandi detrattrici del festival di Sanremo dagli anni ’80, cioè da quando ho smesso, in contemporanea, di credere a Babbo Natale e alle hit parade, ma una brutta influenza mi ha costretta a letto in questi ultimi giorni e, considerata la tradizionale desertificazione dei palinsesti nel periodo festivaliero, ho deciso di farmi coraggio e di sottopormi al trattamento.
La prima cosa che mi è saltata agli occhi, tra una botta di sonno e l’altra, è stata la notevole quantità di mise oltre la soglia del digeribile. Il palco del festival presta sempre il fianco alle sperimentazioni stilistiche degli artisti, nel tentativo disperato di attirare l’attenzione e qualche voto in più. Mentre gli uomini sono stati tendenzialmente più decenti (perlomeno quelli che non mi hanno fatto addormentare), le donne non si sono fatte mancare nulla: dal completino da scolaretto chic di Chiara Dello Iacovo alla salopette da "Casa nella prateria" della quasi vincitrice Francesca Michielin, dalla maglia smessa dal fratello maggiore di Arisa al tappeto da safarista di Madalina Ghenea (la quale, rammentiamolo, solo qualche anno fa dichiarava solennemente a GQ «Bisogna far sognare. Vedere le tette in mostra mi deprime. Se siamo tutti nudi il mistero si perde», salvo poi garantire una vista sul balcone in quasi tutte le serate, che infatti sono state tutt’altro che da sogno...). Anche Virginia Raffaele – alla quale si devono i momenti più divertenti del festival, con le caricature di una burina Ferilli, di un’inedita Fracci violenta, di una fatiscente Donatella Versace e di una molleggiatissima Belen - ha visto bene di trincerarsi dietro a uno stacco di coscia di sicurezza che le avrebbe garantito gradimenti anche in caso di flop sul versante comico! Gabriel Garko, nonostante le gaffe e il perenne impasto buccale (a causa del quale ha elargito pronunce alternative ai nomi di quasi tutti), checché se ne dica, rimane un gran bel vedere e ha finito per polverizzare la sua immagine di fatalone glaciale. Infine, il carbonizzato Carlo Conti ha optato per un dress code piuttosto classico e sobrio, esattamente come il suo stile di conduzione dal sapore rétro, che però ha sempre quella piccola pecca (il voler dimostrare che alla fine ci si è messo davvero a studiare un po’ l’inglese, salvo poi riciclare sempre le stesse tre parole con gli ospiti stranieri, con esiti quasi sempre imbarazzanti. Gli riconosco lo sforzo di aver approfondito la pronuncia dei titoli, ma con “HHHelton JohNNNN” ha fatto filotto ed è ripartito dal via).
La seconda cosa che mi è saltata agli occhi è la musica. No, non ho sbagliato a scrivere, è che forse c’era più da guardare che da ascoltare, in questa edizione. Con l’indubbio aiuto della scenografia di Riccardo Bocchini (e dei lavori in policarbonato artistico di Davide Dall’Osso), le luci di Marco Lucarelli e la regia di Maurizio Pagnussat, è stato piacevole persino ascoltare brani dimenticabilissimi. Nella sostanza, a spartirsi il bel palcoscenico sono stati prodotti di talent show e vecchie glorie (con una netta superiorità di queste ultime sui primi), tra manierismi un po’ sterili, incursioni fallimentari nel patetismo più economico, probabili riverenze all’alta discografia e a chissà chi. Come sempre, menzione speciale per Elio e le Storie Tese, che hanno presentato un brano allucinante composto di soli ritornelli (con trovate sceniche dal finto ritocco chirurgico al travestimento da KISS) che però li ha portati solo al 12esimo posto. A mio avviso, poca buona musica, a un punto tale da farmi quasi commuovere durante le retrospettive che hanno celebrato le carriere di ospiti come Laura Pausini, Eros Ramazzotti, i Pooh (con il rientro di Riccardo Fogli, sempre gagliardissimo) e Renato Zero. In tutta onestà, non ho mai gradito in modo particolare alcuni di loro, ma nel riascoltare i loro medley mi sono resa conto che sono riusciti a scrivere brani che tutti ricordiamo a distanza di decenni, rendendo indimenticabili anche tanti festival passati. Persino Cristina D’Avena ha messo d’accordo la maggior parte del pubblico in sala e a casa. Non è forse musica italiana anche quella? Ai suoi concerti registra il tutto esaurito.
Calerei un velo pietoso sugli ospiti musicali stranieri, di cui ho già dimenticato il nome, fatta eccezione per quello di Elton John, che non era sicuramente al massimo della sua forma vocale, ma che ci ha ricordato di aver scritto quelle due o tre pagine della storia della musica mondiale. Per quanto riguarda gli altri, se è troppo doloroso ricordare che quel palco è stato calcato da musicisti del calibro dei Queen, Whitney Houston, i Toto, Peter Gabriel, David Bowie, Madonna e infiniti altri, mi basta anche solo potermi rivolgere a tutte quelle persone che mi prendevano in giro quando nel 1985 sono andata in visibilio per i Duran Duran ospiti al festival: un megapernacchione meritatissimo a tutti voi. Quelli hanno fatto letteralmente epoca, questi domani saranno dimenticati. Ah, Nicole Kidman. Simpaticissima e di grande classe, ma per 300mila euro chi non lo sarebbe? Grande Bolle, ma serve dirlo? Bravi e professionali Beppe Fiorello, Frassica e Gassman. Un po’ ripetitivi Aldo, Giovanni e Giacomo. Non mi hanno lasciato un grande ricordo gli altri ospiti.
Si è fatto un gran parlare dell’intervento del Maestro Ezio Bosso ma – opinione del tutto personale – neanche quella ha salvato del tutto il festival dalla banalità e dal luogo comune. Quanto mi sarebbe piaciuto che a esser celebrata fosse la sua musica (che piaccia o meno) e la sua dedizione alla musica, anziché a la sventura che vive, che alla fine è stata la vera protagonista. Bosso è un umano immenso, ma la sua grandezza non sta nelle banali frasi che vedo postare nelle bacheche, che sono forse il suo prodotto meno fortunato. Ah, dimenticavo: bouquet meravigliosi, uno più geniale dell’altro, ma non se l’è filati NESSUNO.
Devo dire che le due vittorie, tutto considerato, non sono ingiuste e vanno a premiare anni di lavoro incessante. Tra i giovani, Francesco Gabbani (prima eliminato per un errore nel conteggio dei voti, poi riammesso e infine doppiamente premiato), carrarese dalla lunghissima gavetta, ha presentato un pezzo leggero che oltre a essere orecchiabile e gradevole ha un testo ironico e che fa pensare. Gli Stadio sono una colonna portante della musica italiana che ha presentato un pezzo con dei contenuti, ben arrangiato ed eseguito con emozione autentica, come le lacrime di Curreri nel ricevere il meritato premio. Una menzione particolare per l'incredibile orchestra della RAI, impeccabile come sempre.
Manco a dirlo, record di ascolti. Facendo due conti (scus. il gioc. d. parol.): due cosce lunghe (una bella e modesta, l’altra simpatica e peperina), un figo e uno con la parlantina più tanti figli di talent per i più piccini e vecchie glorie per mamma e papà = la ricetta del successo. Sarà... Io, undicenne, ho smesso di credere a Sanremo nell'87 e ancora oggi approvo il messaggio veicolato dalla canzone vincente: si può dare di più. |