di Don Diego [user #4093] - pubblicato il 26 novembre 2016 ore 08:00
È troppo facile incolpare i gestori di locali poco interessati, il pubblico disincantato o i promoter squali per giustificare la crisi della musica live. Ascoltando i loro pareri si può imparare molto e magari anche trovare una soluzione, ed è quello che abbiamo fatto.
È innegabile: la musica dal vivo in Italia, ma non solo, sta vivendo un pessimo periodo storico. Si lamentano i musicisti, si lamentano i promoter, si lamentano i locali e il pubblico diserta diversi eventi, quindi una celata ammissione di lamentela anche dagli utenti finali. Cosa sta succedendo? Io faccio il musicista da quando mi sono diplomato, nel lontano 1994. Ho sempre e solo campato di questo. Il 90% del mio “stipendio” è sempre stato fatto di attività live, relegando una risicata percentuale all’attività didattica o organizzativa. Negli ultimi cinque anni la situazione è sempre peggiorata. È vero che sono riuscito a mantenere un tenore di concerti sempre alto, ma la difficoltà che incontro a mettere insieme un tour è enorme e giornaliera. Le sale si svuotano e l’età media del pubblico interessato si è drasticamente alzata, fino al punto da farmi tirare un sospiro di sollievo quando vedo tante teste brizzolate tra il pubblico.
Ho pensato di analizzare a fondo questa situazione, cercando di fare il punto attorno a quello che sta succedendo, focalizzando il tema dell’articolo su quali possano essere le migliorie a questa drammatica situazione. Inizio col dire che il tema di questo pezzo è, a tutti i costi, il meno polemico possibile e mi piacerebbe vedere, nei commenti, proposte e idee. Si perchè quello di cui abbiamo bisogno sono soluzioni, che possano aiutare a far diventare il mondo dei concerti nei club un’esperienza piacevole per il pubblico.
Ho pensato di chiedere pareri ad amici estremamente coinvolti in questo mondo, dividendoli per categorie. Ho chiesto il parere ai musicisti, ma ho anche chiesto il parere ai promoter, così come quello dei gestori dei locali e, infine, ma non ultimi, i pareri di alcuni amici appassionati frequentatori di eventi live. Ognuno ha espresso un tassello di una possibile soluzione a un problema che, se risolto, potrebbe aiutarci a stare tutti meglio perché, e qui dobbiamo essere necessariamente tutti d’accordo, la musica dal vivo è un’esperienza sempre positiva! Io mi auguro sinceramente che un giorno i miei figli preferiscano frequentare i concerti che le serate in discoteca ma, a oggi, la vedo veramente difficile come meta.
Tralascio le ovvie dissertazioni su quanto l’Italia sia una nazione con un rispetto verso l’arte a volte imbarazzante. Mi viene da pensare che spesso e volentieri non siamo degni di un passato così glorioso.
La musica, nel nostro caso, è veramente relegata a una specie di setta ristretta. Non esiste programma televisivo o radiofonico che punti sulla qualità, sulla diversità e, sopratutto, sul valore della musica suonata. Nelle scuole elementari e medie la musica è ridotta alla caricatura di se stessa. Ovviamente le nuove generazioni hanno sempre meno stimoli per capire e discernere una cosa buona da una cattiva e io, genitore di due figli, mi sento sempre più incapace di instillare l’amore per la musica, come fece a suo tempo mio padre (che, per inciso, non mi ha mai portato a vedere una partita di pallone, bensì centinaia di concerti jazz).
Partiamo dai pareri dei musicisti che ho raccolto. Molti di loro lamentano il fatto che il numero delle band si è alzato mostruosamente, ma non la loro qualità. Effettivamente adesso la smania di esibirsi è altissima, fino al punto di focalizzare l’impegno finale al raggiungimento dei fatidici trenta pezzi per affrontare i live, dimenticando che quello che si propone non è una lista di pezzi, ma uno spettacolo. Confrontandomi con alcuni colleghi siamo arrivati alla conclusione che 300 band dello stesso genere sul territorio nazionale, di cui 290 hanno gli stessi pezzi in scaletta, è uno dei mali peggiori. Senza uno show che, come un film o una piece teatrale, abbia i suoi momenti di liricità, di picco d’estasi, di virtuosismo, di semplice ironia, che scaturisce in un grandioso finale, difficilmente il pubblico sarà così curioso da metter piede nei club. Una band deve proporre qualcosa di unico, entro i limiti dei propri mezzi. Curare lo spettacolo, ma anche la propria immagine, prima, dopo e durante gli show.
Insomma, come dice Lucky, band leader dei GoodFellas, mediocrità dei media e super uso dei social ci hanno fatto credere a tutti che possiamo avere un talento illimitato da poter vendere-svendere a chiunque.
Andy, un mio amico batterista molto attivo da anni, dice che spesso, andando a vedere i live, nota l’assoluta incapacità comunicativa delle band. Effettivamente fare spettacolo è una forma di comunicazione e il pubblico lo vuole e lo pretende. Io stesso adoro quando il band leader mi introduce al genere o al singolo pezzo, magari con un aneddoto, una storiella divertente o anche semplicemente il retroscena di un pezzo o di un genere. Ovviamente questa cosa implica una profonda conoscenza del genere, e torniamo quindi all’aspetto fondamentale dell’essere musicisti: passione e dedizione, misti a talento.
I pareri dei promoter non sono meno importanti. Sono tutti concordi che un buon promoter debba puntare tutto sulla qualità. A volte è molto semplice scegliere spettacoli o band mediocri, solo perché costano poco o riempiono la sala di amici e parenti. Ma non stanno facendo un buon lavoro. Un buon promoter deve sapere dire “no”, insegnando al suo interlocutore che forse non è ancora arrivato il momento per calcare un palco. Il lavoro di un buon promoter permetterà di avere un pubblico fidelizzato, capace (col tempo) di distinguere la cioccolata dagli escrementi. Ma un buon promoter deve capire che ci sono posti e posti, così come utenze completamente diverse. Il bravo promoter non metterà una band di hard rock in una pizzeria, così come non metterà il quartetto jazz in una sala dove c’è una sconfinata area vuota di fronte al palco. Dovrà capire esigenze del locale che lo ospita e tipologia finale dell’utenza. Il bravo promoter dovrà anche far capire ai gestori che la direzione artistica è veramente un lavoro serio, così come dovrà far capire ai gestori che la musica, una volta programmata, va posta al centro dell’attenzione (quindi postazione per la band, luci giuste, acustica che accentui il piacere all’ascolto, ma anche backstage o un comodo tavolo riservato alle band che hanno affrontato lunghi viaggi per fare il concerto, e quindi, una volta trattati con rispetto, ricambieranno con uno spettacolo di classe).
Gli utenti finali, ossia il pubblico, forse meritano un’analisi più attenta delle loro esigenze. Ho chiesto veramente a tanti amici cosa non piace a loro della situazione attuale. La maggior parte di loro si trova concorde sul fatto che le abitudini italiche stiano diventando sempre più bizzarre.
Non è un dato segreto quello che il pubblico degli appassionati sia composto quasi del tutto da persone dai 35 anni in su. E non è assurdo credere che per chi ha una “certa età” il primo ostacolo alla frequentazione dei live sia l’orario di inizio. Insomma la paura di dover dormire quattro ore o meno e affrontare la giornata successiva completamente rimbambiti è forte. Sono appena rientrato da un tour di un mese in nazioni come Svizzera, Austria, Germania, Belgio e Olanda. Il concerto che è iniziato più tardi è stato quello fatto un sabato sera in Olanda, iniziato alle 22:30, ma la media di inizio era sempre attorno alle 21. Risultato? Locali sempre pieni di persone che riescono a godersi la serata senza fare le ore piccole, potendosi andare a coricare entro la mezzanotte, e poter dar conto al lavoro o alla famiglia il giorno successivo. Questo modo di concepire i concerti aiuta notevolmente anche il fiorire di eventi settimanali, sicuramente più informali, ma vitali per la linfa di un substrato culturale per adesso debole.
Un altro aspetto che mi hanno fatto notare in molti (e che ho analizzato tantissimo durante un tour nel Texas lo scorso febbraio, dove mi sono trovato a relazionarmi con leoni da live di un livello eccelso) è l’inadeguatezza di molti a gestire il “suono finale”. Mi spiego meglio: molti ascoltatori lamentano che spesso le band non sanno “ascoltarsi”, pregiudicando il mix finale. Effettivamente mi è capitato spesso di sentire batteristi picchiare sul rullante come dannati, mentre i chitarristi accompagnavano a tutto spiano di volume, e il cantate al limite della strozzatura per farsi sentire. Insomma questi tre strumenti (che ho preso giusto per fare un esempio) lavorano su un range di frequenze così simile che rischiano di annullarsi tra di loro nel tentativo di farsi sentire a tutti i costi. Parlando di esperienza personale, rimane indimenticabile il sound check di Scott Henderson che ho visto diversi anni fa. Il grande chitarrista americano si mise a suonare due chorus di ritmica, e due di solo, mentre registrava tutto con una loop station, con la band che lo accompagnava. Quindi, lasciando andare in play le parti registrate, si tolse la chitarra di dosso, se ne andò in sala e si mise ad analizzare il suono finale dal punto di vista dell’ascoltatore, correggendo il mix dal banco mixer, ma anche spostando la posizione del suo cabinet e facendo cenni e facce buffe al suo bassista e al suo batterista cercando di spiegar loro cosa fosse meglio per il risultato finale. Lo trovo un approccio assolutamente rispettoso verso chi paga, o semplicemente esce di casa, per sentirti. E, ricordando le parole di John Grammatico, il guru americano degli amplificatori, riguardo alla concezione che c’è dietro ai suoi ampli, non posso che essere d’accordo. Il signor Grammatico mi ha confessato che ha passato ore nei club di Austin e di LA guardando le facce degli avventori alla porta. Quando il suono della band era, ahimè, compromesso da un fastidioso suono di chitarra, gli avventori facevano una faccia stizzita già all’ingresso. Pochi quelli che raggiungevano una postazione frontale rispetto alla band. Da qui i suoi progetti sugli ampli dedicati ad avere un suono che fosse perfettamente amalgamato con il resto della sala. Spesso e volentieri noi musicisti confondiamo pressione sonora con groove: più si pesta più il pezzo sarà carico, eppure, andando in giro per club americani ho notato che suonano a volumi assolutamente moderati, mantenendo una carica e un impatto perfetto, e il pubblico sembra apprezzare! Ricordiamoci che il tema centrale di questo articolo è riavvicinare le persone ai concerti, facendogli godere l’esperienza di una band che ti regala uno show.
E adesso vado a elencare certi aspetti evidenziati da alcuni gestori di locali con i quali sono in estrema confidenza. Premetto che, sapendo già che loro saranno quelli presi principalmente di mira, sto parlando di gestori che adorano la musica, la trattano con rispetto, la programmano con coscienza e la vivono con amore. Uno dei miei amici, Davide, gestore di un live club messinese di tutto rispetto, punta il dito sulla grande difficoltà che ha nel proporre band che hanno tanto talento, ma non sono supportate dai canali di diffusione mediatici che, scarsi per quanto potranno essere, quel centinaio di supporter li racimolano. Insomma c’è gente super cool che non riesce a uscire da un oscuro underground. Quindi una soluzione papabile potrebbe essere quella di riportare in auge tutti quei giornaletti, pagine ciclostilate a volte, dove si elencavano gli eventi della zona, con piccole recensioni che possano stimolare la curiosità.
Purtroppo tanti altri amici gestori hanno puntato il dito sul fatto che la musica sta diventando più spesso un contorno alle serate a tema e loro, dovendo fare la quadra a fine mese coi conti, non possono non assecondare questo trend. Riflettendoci bene non è un cattivo modo (a mio parere) per provare a far tornare la gente nei club, rompendo gli schemi dei più scettici, provando ad accattivarsi la simpatia di nuovi adepti.
Alcuni di loro mi hanno detto che vorrebbero veramente puntare sulla qualità, ma districarsi in un mondo fatto da una miriade di gruppi "handmade" è veramente difficile. Sicuramente i locali devono rendere l’esperienza del concerto piacevole in tutti i sensi. Quindi cura del dettaglio (acustica, luci, temperatura del locale), ma devono trasmettere al proprio pubblico la loro passione! In alcuni dei posti più piacevoli dove ho suonato, prima dell’inizio del mio show, era proprio il gestore-padrone del locale che si piazzava davanti il microfono presentando la band, dicendo cosa facessi, da dove venivo, ringraziando gli intervenuti, presentando gli eventi delle settimane successive. Sembrano stupidaggini, ma fanno tanto club newyorkese figo, e non scordiamoci che alla gente piace essere coccolata.
Mentre stavo per chiudere questo articolo incontro Marco, un mio fraterno amico che è, prima di tutto, un grande appassionato di musica, sempre presente ai concerti di svariati generi, acquirente convinto di dischi e CD ed anche socio di una delle più attive agenzie di promoting europee di musica psychobilly e neo-rockabilly. Pongo anche a lui la fatidica domanda e lui, mettendo le mani avanti, mi dice “occhio che la mia è una risposta pessimistica e drastica”.
Io all’inizio avevo voluto evitare tutte le posizioni pessimistiche, quasi a scongiurare questo stato d’animo. Ma poi ho pensato, dopo averlo ascoltato, che la sua, se pur pessimistica, era comunque una soluzione.
In poche parole Marco sostiene che il disinteresse generalizzato verso la musica è causato dall’eccessivo fruirne in maniera gratuita. Troppi show in posti dove la musica non c’entra niente (bar, pizzerie, diner), mentre i live club chiudono o soffrono. Troppo facile accesso alla musica gratuita (download, peer to peer, pirateria eccetera). Insomma la sua soluzione, drastica, sarebbe quella di togliere tutto ciò che rende la musica roba di poca cosa. Cosa vuol dire questo? Vuoi una canzone? Devi comprarla (il disco o anche lo scarico legale). Questo renderebbe onore a chi lavora per produrla, ma sopratutto farebbe tornare interesse verso la musica, magari anche verso quella suonata dal vivo. Il paragone più appropriato è quello delle relazioni, ossia ti rendi conto quanto vuoi bene a una persona solo quando non ce l’hai più accanto.
Io non so se questo fiume di parole possa essere servito a qualcosa. Dal mio lato posso assicurarvi che ce la sto mettendo tutta per evitare che la musica muoia. Ma io sono solo uno degli anelli di questa catena. Cerco di fare in modo che il mio lavoro finisca con l’essere apprezzato da quella decina di spettatori di quel piccolo club sperando che, la prossima volta che ci risuono, almeno otto di loro tornino, portando qualcuno di nuovo, magari trainato dall’entusiasmo che ho provato a infondergli la volta precedente. Non è retorico pensare che un mondo dove regna la buona musica è un mondo migliore. Quindi aiutiamoci a migliorare la situazione attuale. Spero che i commenti a questo articolo possano dare spunto a tante piccole tessere di un puzzle complesso.