La band è un vero e proprio supergruppo composto da Billy Sheehan (Mr.Big - Steve Vai) al basso, Derek Sherinian (Dream Theater – Planet X) alle tastiere, Ron “Bumblefoot” Thal (Guns N’ Roses – Art of Anarchy) alla chitarra, Jeff Scott Soto (Yngwie Malmsteen’s Rising Force) alla voce e, appunto, il buon vecchio Mike Portnoy alla batteria. Come già dimostrato con i precedenti lavori assieme ai “Winnery Dogs”, Portnoy dà l’impressione di starsi davvero divertendo in queste nuove avventure musicali e che il capitolo Dream Theater non gli manchi per niente; lo si avverte da tutte le sue idee, tante e frizzanti, presenti in ogni singola canzone di questo album. E lo si vede, ancora più chiaramente, osservandolo suonare live, situazione in cui pare spassarsela sul serio! In questo disco Portnoy è protagonista: è il produttore del lavoro assieme a Sherinian ed il principale compositore delle canzoni assieme a Sheenan. La sua libertà creativa impazza e canzoni come “God of The Sun” ne sono un’ottima testimonianza. Questo pezzo è esattamente quanto di meglio ci si può aspettare dal binomio Mike Portnoy + Progressive Metal. Infatti, proprio la varietà e creatività del playing di Portnoy fanno sì che anche in una canzone da 12 minuti, il batterista riesca sempre a tenere alta l’attenzione dell’ascoltatore: groove terzinati di doppia cassa, momenti di calma piatta, potenti groove dispari si alternato in un canovaccio sonoro e di arrangiamento stupefacente, che non può annoiare.
“Sign of The Time” e “Lost in Oblivion” sono veri classici da Progressive Metal, caratterizzati da riff potenti di chitarra, supportati da ottime dosi di groove con doppia cassa, tempi dispari e feel sestinati in pieno stile Portnoy. In entrambe le canzoni ci si gusta un magnifico assolo della tastiera di Sherinian. In “Alive” colpisce l’assolo finale di Bumblefoot suonato alla chitarra fretless.
La band ha dichiarato che in questo disco ci sono molto delle loro influenze: in “Figaro’s Whore” e “Divine Addiction” le intro di tastiera di pura ispirazione a Jon Lord, evocano chiaramente i Deep Purple. Su “Coming Home” le costruzioni vocali e, in particolare, l’assolo e la parte finale di chitarra paiono un tributo ai Van Halen dell’era Sammy Hagar.
Ovviamente, tra queste influenze, non poteva mancare un tributo al Progressive Rock classico: la canzone conclusiva dell’album “Opus Maximus” ricorda nell’impianto Geddy Lee e i suoi Rush, ma c’è molta più cattiveria strumentale, grazie ai virtuosisimi shred di chitarra e basso.
Una menzione a parte le merita, infine, “Labirinth”; il pezzo parte con un deciso riffing carico di sedicesimi per poi passare ad una seconda parte dal ritmo terzinato, altro trademark di Portnoy. Ci si ubriaca con le acrobazie negli assolo in tapping di Bumblefoot, eseguiti all’unisono con Sherinian.
La scelta dei suoni della batteria è azzeccata e riporta alla mente quelli presenti in “Six Degrees of Inner Turbulance” con i Dream Theater e di “Suspended Animation” con John Petrucci.
Portnoy torna quindi al suono del suo molto accentuato grazie ad un’accordatura high della pelle. (Ascoltare “Lost in Oblivion” per credere)
Un buon disco, potente e moderno, senz’altro di riferimento per gli ottimi spunti e le idee batteristiche di stampo Prog Metal.
Del resto, ormai da più di 25 anni il buon Mike Portnoy è maestro indiscusso del genere.
”Psychotic Symphony” è uscito per InsideOut Music / Sony Music – 2017
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