di Pietro Paolo Falco [user #17844] - pubblicato il 26 giugno 2021 ore 18:15
Come suona una Les Paul? Rotonda, grassa. Eppure, quando Lester Polfus trasformava la sua The Log in una delle prime solid body della storia, la voce della chitarra era di gran lunga differente.
Lester Polfus era un genio.
Certo, non è una novità. Ma la sua visione di ormai oltre mezzo secolo fa potrebbe non essere quella che conosciamo.
In decenni di evoluzione, la solid body del “mago di Waukesha” potrebbe oggi risultare travisata, forse trasformata, cambiata di giorno in giorno fino a diventare una bestia a sé, al di fuori del controllo del suo stesso creatore.
Inventare un nuovo suono dal nulla non è facile. Quando si dà forma a uno strumento che - semplicemente - non esisteva prima, è naturale partire da un riferimento familiare, un timbro intorno al quale si sono formate le proprie dita e orecchie.
Così, anche la chitarra elettrica trova le sue basi nei diretti predecessori. Ed è qui che la prima grande differenza tra la scuola Fender e quella Gibson diventa evidente.
Mentre Leo Fender progettava la Telecaster con in testa il mondo della chitarra acustica, tra country e bluegrass, la ricerca filologica di Lester Polfus nasceva da una musa di gran lunga diversa.
L’impronta jazzistica di Les lo ha portato a individuare nelle archtop e nelle jazzbox il punto di partenza per la sua rivoluzione solid body.
Così la Les Paul ha sempre puntato a un timbro più rotondo, caldo, rivolto al sustain più che all’attacco della nota, con “un’aria” di fondo che sarà poi conservata nelle future produzioni Gibson anche nel campo archtop e semiacustico a venire.
Lo stesso Polfus, che non si è fermato affatto alle prime sperimentazioni solid body a cassa bombata degli anni ’50 ed è arrivato persino a ripudiare il filone puramente elettrico di Gibson portato avanti con la SG, ha raffinato il suo strumento ideale in una precisa - e diversa - direzione. Fino ai suoi ultimi anni di attività da musicista, una delle chitarre con cui era più facile vederlo esibirsi era la Les Paul Recording.
La Recording è una di quelle perle quasi dimenticate nel catalogo Gibson.
Due pickup inclinati con le fattezze di due single coil ma a poli coperti, una grossa piastra dei controlli per un’elettronica complessa, quasi sempre con un Bigsby e con un’estetica che dà spazio a più di qualche domanda.
Legno nudo e battipenna nero sono agli antipodi rispetto al Goldtop e ai Sunburst che hanno reso famose le Les Paul dell’epoca d’oro. Eppure, negli anni della maturità, Les vedeva così la chitarra elettrica: uno strumento da lavoro senza troppo fronzoli, traboccante di manopole e levette e con precise funzionalità.
La Recording trova tutto quello che una Les Paul moderna non ha. Tutto quello che la stragrande maggioranza delle chitarre moderne non hanno. Montava switch per l’inversione di fase, switch per il livello d’uscita ed era pensata per venire collegata dritta in un banco di missaggio, senza effetti, amplificatori né altro. Una visione che ancora oggi - con le simulazioni digitali che danno solo l’illusione di essersi liberati di tali ammennicoli - stranisce qualunque chitarrista.
Eppure Les Paul la vedeva così, la chitarra elettrica. La sua Les Paul.
E poi c’è la Les Paul. La chitarra, quella che ha seguito una sua evoluzione sui cataloghi Gibson e tra le mani di migliaia di utenti. Famosi o meno, professionisti e dilettanti, ogni goccia nel mare ha contribuito al colore che la Les Paul è oggi, nelle moderne produzioni Gibson, nei dischi, sui palchi.
Grossa, aggressiva, una macchina da riff ritmici rigorosamente sparati col pickup al ponte, quello che Les Paul chiamava Treble, contrapposto al pickup al manico indicato con Rhythm: ironicamente, “ritmica”.
Come suona quindi la Les Paul?
Forse la sua voce è nel grido graffiante dei Cream, nel rombo dei Black Label Society, o nel canto di Slash. Tuttavia, probabilmente, non è come il suo inventore aveva in mente né come avrebbe mai potuto immaginare.
È figlia sua e lo resterà finché l’uomo ne avrà memoria, eppure è innegabile che dietro quella firma autografa sulla paletta c’è il contributo di innumerevoli artisti, signature nella signature, che hanno reso la Les Paul quella che è oggi.
Tutto ciò balza all’occhio con un rapido ascolto a un confronto diretto tra Les Paul - sulla sua Recording con Bigsby - e Billy Gibbons, un uomo che della Gibson Les Paul ha fatto la sua fortuna, il suo segno distintivo e ha legato come pochi la sua “voce” a tale strumento.
Accadeva nell’agosto del 1999, quando Billy saliva sul palco accanto a Lester per un rapido duetto. Billy e la sua Les Paul, Les Paul e la sua Les Paul. Eppure, due chitarre che suonano tremendamente diverse.
La registrazione audio è amatoriale, ma gli elementi si individuano tutti.
Il suono di Les Paul conserva un profondo timbro semiacustico di base. L’attacco del plettro è quasi acustico, organico, con un’apertura sulle alte che richiama immediatamente gli anni ’50 e ’60. Gibbons, viceversa, diventa la sintesi di tutti i cliché che qualsiasi chitarrista vede in una Les Paul: il suo sound è pieno, diretto, un fascio gonfio e uniforme di tono che, seppur conservando la gutturalità tipica del mogano-humbucker-scalacorta, prende vita solo quando la mano ci dà dentro e la saturazione si fa sentire.