Immancabili le osservazioni pro/contro il marchio dello strumento, prioritarie quasi come se il logo sulla paletta equivalesse alla bandiera del clan di appartenenza («alla fine ti interessa solo aver scritto Fender sulla paletta», «ho provato una Squier che suonava meglio di qualsiasi messicana e anche del Custom Shop», «con un’Ibanez non puoi suonare bene blues», «con un’Ibanez puoi suonare bene di tutto, anche blues»).
Non meno gettonate sono le sortite giustificative («con una chitarra così suona bene chiunque» o, per inverso, «col canchero che uso io i pezzi non vengono mai come dovrebbero»), quelle celebrative («con un chitarrista così suona bene ogni chitarra») e le rivelative («cavi, corde, plettro, ampli, chitarra non contano nulla nel suono, è il manico che conta» oppure «cavi, corde, plettro, ampli, chitarra non contano nulla nel suono, il suono è nelle mani»).
Immancabili, poi, le osservazioni sul genere («se sai suonare jazz, sai suonare tutto», «il rock è di budello, il jazz è di cervello», «per suonare il blues ci vuole sentimento prima di tutto, la preparazione quasi non conta»).
Inesauribile la querelle tra ipertecnici e sentimentalisti («tecnica e feeling non vanno mai d’accordo», con le varianti minimizzanti «sì, musicisti mostruosi tecnicamente ma senz’anima», «bravo, ma non mi trasmette nulla», «meglio una nota suonata con feeling che mille da dattilografo», «sì, bravo, ma tutti fraseggi scontati sentiti milioni di volte» e orientate al musicista «meglio un bending di Gilmour che venti scale di Vai»). Nei casi più fortunati, lo schieramento a favore del minimalismo è frutto di un’autentica scelta stilistico-filosofica compiuta dopo un certo percorso evolutivo ma – diciamocelo – assai spesso è una scelta obbligata che cela il concetto “vorrei ma non posso”.
Volendoci spostare dalle esternazioni al versante dei rituali, mi sono riconosciuta pienamente nei racconti accordiani sulle incursioni del chitarrista nei negozi di strumenti musicali, dove si isola in una bolla atemporale e aspaziale, in cui tanto più intenso è il rapporto instaurato con lo strumento provato e tanto più cupo è l’oblio in cui cade la donna che lo accompagna. Il gruppo sociale di cui fa parte sembra sciogliere improvvisamente i propri anelli, rendendo il chitarrista libero di seguire i propri istinti primari (provare la chitarra, per l'appunto): il ruolo (padre, marito, fidanzato), le regole (puntualità), le tradizioni (cenare tutti insieme, l’interazione sociale nel weekend) e persino i valori (la lealtà, l’onestà – principalmente in merito al prezzo della strumentazione) si sgretolano in favore di una bestialità individualista a sei o più corde. Se dalla maledetta bolla infernale, poi, il chitarrista dovesse uscire con un nuovo acquisto, il degrado nel quale potrebbe sprofondare non conosce confini (barba lunga, igiene personale deplorevole, nel nome dell’emarginazione e dell’asocialità più estreme per giorni e giorni): il chitarrista e la sua nuova frequentazione hanno bisogno di intimità, di quel tipo che non consente alla donna di partecipare, neanche da guardona («qui ti annoi, ci vediamo stasera», « tanto hai da fare, no?»). E quando poi riesce a portarsela sul palco, il chitarrista assai spesso cade vittima di altri leggendari luoghi comuni (tipo alzare di svariate tacche il volume dell’ampli rigorosamente dopo il sound check o fare soli di un quarto d’ora, tanto per citarne due che tutti conosciamo).
Insomma, potremmo andare avanti per ore. A prescindere dall’età, dallo status sociale, dall’orientamento sessuale, dall’educazione e quant’altro, qualcosa li accomuna tutti: che esercitino la professione di musicisti o che si dedichino allo strumento da “semplici” strimpellatori, i chitarristi, pur nella loro diversità, condividono dei topòi, dei motivi ricorrenti che non si stancheranno mai di riproporre, perché anche il semplice parlarne è gratificante. Il problema concreto nel relazionarsi con loro (con voi) è che non c’è speranza di scardinare né di comprenderne l’universo chitarrocentrico, tanto meno di inserirsi in esso se non se ne fa parte. Accordo, con il suo popolo ad alto tasso di chitarrismo, permette ai “grandi esclusi” come me di sondare sensibilità, pensieri, dubbi, angosce, deliri degli axemen, ma sempre in qualità di visitatori.
Un po’ come in un safari, ma molto più pericoloso.