Con un po’ di ritardo ti scrivo, Pino. Scusami. Ma ho fatto passare l’emozione del momento. Guardo il vuoto che hai lasciato e credo che forse potevi morire tra una ventina d’anni, così per farlo sembrare più giusto. Ma ormai è tardi per recriminare.
Perciò facciamo un gioco. Facciamo che tu sei l’intervistatore e io l’intervistato, e che tu mi chiedi: “Che cosa hai imparato da Pino Daniele, come chitarrista e musicista?” Ecco le mie risposte. “L’assolo di “Uè Man”, per esempio, così blues che più blues non si può. Lì il blues lo capisci come se fosse Eric Clapton. Pure meglio... certo, quando l’ho imparato suonavo una Eko Ranger 6 Elektra, avevo 17 anni e sorvolavo sul fatto che - se non sbaglio - l’assolo originale fosse fatto con una Stratocaster (è davvero così?). E poi l’idea di strumentista completo: classica, acustica, elettrica, battente, mandolino... Pino suonava tutto questo con una tecnica elegantissima, di quelle che rendono facili le cose difficili, come per esempio l’assolo di “Viento ‘e Terra”. Poi la dimensione dell’internazionalità di un linguaggio “localizzato”. Ovvero: Pino molto più della musica napoletana classica, ha portato ovunque la Lingua Napoletana (come la chiamava lui), insieme alla musica che serviva a farla cantare. Ha fuso tendenze musicali provenienti dal blues, dal jazz, e dalla musica etnica mediterranea, quella araba soprattutto. Facendo di Napoli e del Neapolitan Power il fulcro della musica sperimentale italiana per tanti anni. Una cosa credo impossibile da dimenticare, e da replicare. Aggiungo: la fierezza di essere meridionale. E poi, l’accordatura di “Lazzari Felici”... che quando riesci a capirla e cominci a suonare il brano, piangi dalla felicità.” Ciao Pino, ti sarò debitore per sempre. Spero di ricambiare prima o poi, anche se la vedo dura.
Tanty Graffy a Tutty
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