Nel luglio 2017 la compagnia americana Moody’s - quella che da i rating di titoli e obbligazioni di tutto il mondo, ci avvertiva che il brand Gibson sarebbe entrato in default se al primo luglio 2018 non fosse stato in grado di rinegoziare 375 milioni di dollari di debito obbligazionario e 145 milioni di debito bancario. Nel frattempo gli tagliava il rating.
Nella stessa nota Moody’s segnalava un lieve miglioramento delle condizioni finanziarie di Fender e la crisi della catena americana Guitar Center Inc.
Ci vuole poco a capire che quando di te si parla per il tuo debito e non per le tue chitarre è saltato qualcosa nel rapporto tra creazione artistica, musicale e culturale e strumento musicale. E tuttavia è inevitabile che una analisi finanziaria sia necessaria quando il produttore diventa una big company di caratura internazionale ed il mercato finanziario sia uno strumento di supporto necessario per la crescita.
Tralasciando temi di questo tipo è forse utile argomentare quello che è accaduto alle aziende produttrici di chitarre nel mondo e nel nostro paese. E perció la prima domanda che ci dovremmo porre è se la chitarra sia ancora lo strumento intorno al quale ruota la produzione musicale mondiale, quella più diffusa, quella che vende visualizzazioni o download. E la risposta è NO e non lo scrivo io ma musicisti come Clapton, Liam Gallagher o Jack White. La chitarra e la chitarra elettrica non sono più strumenti di elezione intorno ai quali si scrive la musica e il suono più venduto o diffuso. Grande parte di essa si fa su pc, l’innovazione dei suoni non è più appannaggio degli effetti per chitarra, per suonare con un pc basta saper smanettare e avere un minimo di inventiva mentre saper suonare uno strumento richiede tempo e apprendimento maggiori, tocco, comprensione del ritmo etc.
Così, tristemente, sempre meno musica di “successo” si scrive con la chitarra e di conseguenza sempre meno chitarre entrano nei desideri di acquisto delle nuove generazioni.
E il mondo dei produttori che ha fatto?
Il mondo dei produttori ha prima saturato come un tappo il mercato inventando strategie di diversificazione più impensabili ( ci saranno almeno 15 concept commerciali di Stratocaster partendo dalle produzioni asiatiche e finendo a quelle masterbuilt ) e poi è tornato indietro cavalcando la teoria della esclusività della produzione, limitando il numero di distributori e dealers, sperando di riposizionare la percezione del proprio strumento tra quelli di elite, con il risultato che mentre scrivo una Gibson Standard - il cui suono di standard non ha più niente per via della modernità della circuitazione push pull - puó costare circa 3.000 euro, due volte e mezzo lo stipendio medio di un lavoratore, obbiettivo impossibile da raggiungere per qualsiasi musicista squattrinato o giovane artista.
E se desideri maggiore accuratezza storica nel suono devi porti un budget compreso tra i 7.000 e i 9.000 euro, per uno strumento relegato forse al mercato dei collezionisti e che nessun artista si sognerebbe di portare sul palco. Così è ripartita anche per quella strategia una nuova via della segmentazione del mercato con scelte di marketing e di prodotto che ci hanno consegnato fenomeni commerciali come le HP, le historic, le true historic, le custom shop, le relic, le heavy relic, le masterbuilt, le artist signature di ogni genere e forma. Ma in tutto questo nessuno si domandava in quanti producono ancora musica intorno ad una chitarra? Era veramente necessario seguire le teorie di competitività di Michael Porter, a cui stiamo accennando qui, che sono teorie economiche e di mercato che tutti i manager del settore hanno studiato, trascurando l’asse portante della questione? E cioè che la chitarra non è un prodotto di consumo qualsiasi ma uno strumento di espressività artistica e tolta quella scompare anche la sua domanda?
Domande a cui non avremo risposte, ci limiteremo, da protagonisti del mercato in quanto musicisti, collezionisti e utenti, a segnare il declino di questo o quel marchio semplicemente non comprando più.
E gli altri competitor? Gli altri competitor, specie quelli asiatici, hanno dapprima imparato a fare chitarre grazie alla esternalizzazione produttiva dei brand leader nei loro paesi e poi hanno invaso il mercato con strumenti di fascia bassa, media e alta a prezzi decisamente concorrenziali, minando alla base tutta l’impalcatura di marketing realizzata dai produttori americani che hanno perso terreno nelle fasce più economiche. Fa eccezione probabilmente Ibanez che si è distinta già a partire dagli anni 60 e 70 abbandonando le repliche e dedicandosi ad una sua strategia di mercato destinata a clienti non affascinati da un concetto custom della chitarra elettrica.
Cosa ci possiamo aspettare allora per il futuro in questo contesto? Non credo che i brand più famosi spariranno nonostante le criticità finanziarie. Subiranno probabilmente un inevitabile ridimensionanento commerciale giá in realtà partito con la scomparsa degli importatori nazionali - ultimo caso è Fender - che non porta nulla di buono perchè ancora una volta risponde ad una semplificazione commerciale e di profitto ma trascura le differenze culturali e di consumo che un importatore locale comprende e affronta più facilmente per un prodotto utile appunto in campo artistico e culturale. Credo che un ridimensionamento delle vendite dipenda anche da questa idea di centralizzazione.
La scomparsa dei dealer locali a vantaggio di pochi negozi professionali e dell’e-commerce segnerà una ulteriore riduzione delle vendite e favorirà marchi emergenti più concorrenziali e competitivi distribuiti da imprenditori che non avranno nessuna voglia di uscire dal business col risultato che chi scommetterà sulla ricostruzione della percezione della chitarra come strumento di produzione musicale, innovativo e destinato alle nuove generazioni di ragazzi e artisti, avrà la chiave per riconquistare il mercato dal basso. Attenzione che il tema è stato già affrontato dai produttori di Synth a cui si dovrebbe guardare per ispirarsi.
E i produttori italiani?
Non è un mistero che sono pressocchè inesistenti. Escluso un marchio la cui collocazione commerciale è mista - fascia bassa e alta - i produttori italiani sono piccoli artigiani, liutai et similia, molto bravi ma lontani dal comprendere la necessitá di essere industria per sopravvivere. Concentrati sul prodotto, trascurano quasi tutti che è necessario un packaging adeguato, la costruzione di un brand profittevole, una attenzione alla rivendibilità sul mercato secondario del proprio prodotto e la sua disponibilità capillare. In tanti scelgono la via dell’endorsement sentendosi orgogliosi che la propria chitarra sia imbracciata dal musicista di Vasco, di Ligabue, di Ramazzotti o di qualsiasi altro big della musica italiana che ci potrebbe venire in mente citare qui. Eppure chi va a sentire un artista del genere ci va per il suo chitarrista? Probabilmente no, tranne una sparuta minoranza. Ma comunque quando anche funzionasse ci troveremmo di fronte ad una produzione estremamente ridotta, non industriale, con modelli incerti o da costruire volta per volta. Decisamente lontani dalla possibilitá di affrontare questo mercato con qualche risultato che vada oltre la sopravvivenza individuale.
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