Richard Cook ha scritto un magnifico libro in cui racconta la vicenda di questa leggendaria etichetta indipendente che, a partire dagli anni Cinquanta, ha segnato e rivoluzionato profondamente la discografia della musica afro-americana. Puntando su un’idea di comunità artistica e sull’eccellenza delle scelte creative, nonché di quelle legate alla registrazione dei dischi e alla loro linea grafica (tra i collaboratori si annovera anche un giovane Andy Warhol). Da Miles Davis a John Coltrane, da Thelonious Monk a Sonny Rollins, da Art Blakey a Wayne Shorter, a tantissimi altri, il catalogo di questa casa è un vero monumento al ’900 jazzistico.
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Sono gli anni Trenta del secolo. Negli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt avvia la politica del New Deal per combattere la grande depressione; a Chicago, Al Capone viene arrestato da Eliot Ness; nasce la Twentieth Century Fox. È l’era in cui si afferma la musica swing e nasce definitivamente la swing craze in cui It Don’t Mean a Thing (If It Ain’t Got That Swing): non significa nulla se non ci metti questo swing.
La registrazione ha influenzato l’ascolto della musica in maniera quantitativa e qualitativa, ha influenzato la ricerca musicale e ha incoraggiato l’esplorazione di repertori musicali poco conosciuti. L’idea di registrazione sonora si trova anche in antichi racconti come nel Quarto libro del Pantagruel (1548) di Rabelais in cui l’autore narra che i rumori e le grida di una battaglia combattuta in inverno rimasero congelati e poi a primavera si sciolsero e divennero udibili. Nel saggio Ontologia dell’immagine fotografica (1945) Andrè Bazin descrisse il “complesso della mummia”, ovvero il bisogno fondamentale della psicologia umana: la difesa contro il logorio del tempo. Infatti come testimonia la parola inglese “recording”, ogni registrazione è la fissazione di un ricordo, memoria tecnica, che basandosi su un processo automatico, si produce come tale anche in assenza di un’intenzione cosciente di preservare un ricordo. Questa è la avvincente storia della Blue Note e dei suoi uomini raccontata da Richard Cook nel suo splendido libro Blue Note Records. Storia non solo di musica ma di uomini, di costume, di arte, tante storie che convogliano in un grande e affascinante racconto che dura fino ad oggi e continua nella sua leggenda. Nel 1938 i negozi non erano più monomandatari, dove cioè si trovavano solo dischi della Columbia o della Victor, in un paese grande come l’America a volte i successi erano confezionati su gusti regionali, uno stile che poteva avere successo in una regione non era detto che avesse successo in un'altra, e inoltre si andava affermando lo scambio sotterraneo dei dischi fuori commercio o fuori catalogo.
La Blue Note si costituì in società nel 1939; Alfred Lion e Max Margulis, che investì il capitale maggiore, ne erano i due esponenti principali. È sempre stata un casa discografica avanti nel tempo. Nel 1942 l’AFM (American Federation of Musicians ) propose che le principali case discografiche pagassero al sindacato delle royalties su ogni disco venduto. Poiché si era creata una situazione di stallo, l’AFM proclamò la sospensione di tutte le incisioni discografiche di musica strumentale, a partire dal 1° agosto. La sospensione rimase in vigore per quasi due anni, ma la Blue Note raggiunse un accordo con il sindacato che le permetteva di rimettersi in attività quando voleva. Nel 1947 quando i grandi boppers avevano già inciso con grandi o piccole case discografiche, Alfred Lion scritturò un pianista, Thelonious Monk, che ancora non era considerato il più grande compositore dopo Duke Ellington. Alfred Lion nel 1985 disse a riguardo, parlandone con Micheal Cuscuna: “Monk era così fantasticamente originale, le sue composizioni così forti e nuove, che io volevo registrarle tutte. Era così favoloso che dovetti registrare tutto”.
L’idea che un’etichetta sia un luogo di spiriti affini oggi è un luogo comune, ma negli anni Cinquanta, quando la Blue Note la promoveva, era una rarità. L’idea di costruire un catalogo ma con musicisti simbiotici che suonavano nei dischi degli altri era quello che emergeva alla Blue Note. Nel 1953-1954 produssero il concerto della working band quintetto di Art Blakey al Birdland registrato da Rudy Van Gelder, con Clifford Brown alla tromba, Horace Silver al piano, Lou Donaldson al sax contralto, Curly Russell al contrabasso e ovviamente Art Blakey alla batteria. L’idea era quella di una band, appunto la “workin’ band”, costituita di elementi fissi della Blue Note. Ma un team composto non solo di musicisti: Van Gelder, un ottico che aveva cominciato da dilettante a registrare i suoi amici nel salotto della casa dei genitori nel New Jersey, è diventata una figura leggendaria nel campo delle registrazioni jazz. A lui si deve la registrazione della maggior parte dei grandi del jazz della seconda metà del XX secolo, tra cui Miles Davis, Thelonious Monk, Wayne Shorter e moltissimi altri, contribuendo ad immortalare dischi che hanno fatto storia.
A metà degli anni ’50, Monk compose un pezzo, intitolato Hackensack dedicato proprio a Van Gelder e al suo studio. A Hackensack Sonny Rollins registrò Saxophone Colossus e il quintetto di Miles Davis effettuò le sessioni della serie Cookin' with the Miles Davis Quintet. Nello studio di Englewood Cliffs, nel 1964, John Coltrane registrò il leggendario A Love Supreme. Altro fattore importante per una casa discografica è la grafica. Alla Blue Note era già presente il fotografo e co-fondatore Francis Wolff le cui foto venivano utilizzate dai grafici dell’azienda: Paul Bacon, Gil Mellè.
Alla già ricca compagine di grafici si aggiunse Reid K Miles che realizzò cinquecento copertine circa, tra cui quella di Somethin’ else di Cannonbal Adderley e Right now di Jackie Mc Lean. Anche Andy Warhol diede un contributo alla realizzazione delle copertine per la Blue Note, infatti si tratta di uno strano caso in cui Red Miles commissionò un disegno ad un illustratore e l’artista in questione si chiamava Andy Warhol, appunto, il quale iniziò la sua carriera come artista negli anni
Cinquanta facendo illustrazioni per la moda e disegni per riviste tra le quali Vogue, nonché illustrazioni per case discografiche, all’incirca dieci: quattro per la Blue Note, quattro per la RCA Victor , una per la Groove (etichetta consociata della RCA Victor), e una per la Prestige. Per la Blue Note vanno ricordate le copertine di: Kenny Burrell (vol. 2) - Johnny Griffin: Congregation -Kenny Burrell Blue Lights, vol. 1 - Kenny Burrell Blue Lights, vol. 2.
La fortuna della Blue Note e dei suoi musicisti era che Lion e Wolff li lasciavano molto liberi. Lou Donaldson racconta questo aneddoto: “Frank e Alfred erano tedeschi e non sapevano un gran che della nostra musica. Per questo non ti stavano adosso… dicevano: Oh be’,questa è la musica dei neri. Sapranno loro come va fatta, quindi per noi facciano come vogliono. È così che hanno fatto tanti soldi”. La Blue Note è sempre stata un’etichetta indipendente attenta alla scelta dei musicisti e non soltanto alle vendite, per altre case discografiche un posizionamento nella top thirty sarebbe stato un successo mediocre, ma per la Blue Note era un gran successo. Il jazz vendeva ancora. Michael Cuscuna studioso della Blue Note la vede così: “Se sei un etichetta indipendente, qualunque sia il tuo genere musicale, quando arrivi al successo devi trattare con una serie di distributori indipendenti che coprono aree geografiche diverse, devi spedirgli i dischi, e vuoi che li vendano per spedirgliene altri, ma loro non ti pagano l’ultima consegna finché tu non metti fuori qualcosa di nuovo che li attiri. È come il gatto che si morde la coda”.
La Blue Note è e rimane una delle più importanti case discografiche di sempre, il jazz non è più quello che era, ma la Blue Note resiste.
Cosimo Ruggieri.