Oggi vorrei proporre uno spunto di riflessione dall’intento (vagamente) polemico, senza necessariamente prendermela con nessuno, anche perché mi sento di essere il primo tra gli imputati in questione. Dopo un’estate densa di concerti (di cui ho scritto, in parte, proprio qui), rincorrendo a destra e a manca artisti di un certo calibro - per buona parte chitarristi - mi trovo alle soglie di una nuova invernata in cui di musica dal vivo ce ne sarà ben poca, ma fortunatamente non mancherà di musica suonata. L’autunno è sempre un bel momento per riprendere dimestichezza con le pentatoniche, i bending, i soli (con bestemmie annesse) e – tanto per non farci mancare nulla – le tendiniti. Insomma, come credo sia normale per buona parte dei chitarristi – o chitarromani (se vi pare) – la fine dell’estate rappresenta quella fase dell’anno in cui ci si prefissa di recuperare quello che, complice il caldo che deturpa senza pietà le corde con litri di sudore, si era lasciato incompleto (progetti di registrazione, prove in garage, canzoni da imparare ecc…). Fin qui non ci sarebbe nulla di strano e tale tendenza a riprendere gli studi chitarristici viene ampiamente confermata dal mondo del web. Infatti, sui vari siti dedicati iniziano a diffondersi, in modo ossessivo, i videotutorial più disparati, vengono postate interviste estrapolate dalla clinic estiva di questo o quel musicista; mentre le interfacce di youtube tornano ad essere intasate da splendidi e narcisisti imitatori, di questo o quell’artista, che ogni anno riescono ad avere un suono più vero di quello del disco originale (negarlo è impossibile). I likes aumentano senza sosta, così come i dibattiti su quale pedale comprare, quale muta di corde dai poteri sovraumani scegliere, quale chitarra cinese da cinquanta euro possa suonare meglio di una di liuteria da ventimila o quale eco a nastro, ormai fuori produzione, sia indispensabile per suonare come in quel disco del 1972 senza comprare una macchina del tempo (che poi forese costerebbe meno). Non appena la schiera di chitarristi ritorna in studio, o meglio, in cameretta – perché, nella maggior parte dei casi, di tanto si tratta – ogni velleità di rock n roll, ogni pretesa di salire su uno di quei palchi - che durante quei tre o quattro festival estivi ci illudono a caro prezzo (a cui tuttavia non rinuncerei mai) di vivere nei 70’ per almeno una giornata – si riduce ad una sorta di goffa vaudeville del web, con chitarristi mutati in esperti di ogni tipo che passano più tempo sulla tastiera del proprio pc che non su quella della chitarra.
Veniamo ora al punto di questo discorso, che non è tanto quello di criticare l’uso improprio del web in senso lato – al cospetto del “bla bla bla” del dibattito politico, discussioni come quelle evocate sono qualcosa di costruttivo (anche se l’idea di aiutare i “Pro Co Rat” a casa loro, a breve potrebbe essere un argomento interessante quanto l’ernie ball di cittadinanza) – bensì sottolineare questa che può essere definita, a pieno titolo, come una nuova fase del rock n’ roll, quella 3.0.
Premessa: se la fase 1.0, quella dei “primitivi”, da Chuck Berry a Keith Richards, va dai primi anni Cinquanta al 1969 (con Woodstock), con il graduale e probabilmente inconsapevole emergere del protagonismo di quella chitarra elettrica che, proprio nella fase 2.0, dal 1969 al 1997 (anno in cui i Radiohead pubblicano “Ok Computer”) avrebbe stravolto il modo di concepire la musica - con un impatto sociale che mai uno strumento musicale aveva avuto prima - la fase 3.0, quella in cui siamo immersi oggi, consiste in uno, sebben consapevole, scimmiottamento del passato, talvolta insensato, altre volte nostalgico o addirittura con pretese di innovazione. Non si può negare certamente il fatto che, purtroppo, nella musica che conta (i milioni di denari) la chitarra stessa abbia assunto un ruolo marginale. Del resto, risale a qualche mese fa la dichiarazione di Eric Clapton – un uomo che è chitarra già a pronunciarne il nome – secondo il quale il problema non siano tanto i chitarristi, ma “è la chitarra ad aver dato tutto. È la fine dell’epoca a sei corde”. La conferma di ciò pare arrivare da ogni direzione, dal fatto che alcuni gruppi “rock” emergenti si limitino a strimpellare quattro power chords così essenziali da far sembrare i riff dei Green Day o degli Oasis delle prove maestose di virtuosismo, oppure dalla tendenza evidente nel “pop”, anche e soprattutto Live, in cui la chitarra elettrica assume una posizione decisamente poco centrale nel mix, emergendo appena dal pastrocchio generale. Però per fortuna ci sono i nostalgici… per fortuna? Parliamo di quella marea impazzita che vaga sul web alla folle rincorsa del suono perfettamente affine a quello di cinquant’anni fa, di una comunità di musicisti alla ricerca di atmosfere ormai irrecuperabili, quasi a volersi consolare da soli dell’incombere irreversibile della fine dei tempi…amen. Sia chiaro, non c’è niente di male in tutto questo, anche perché chi scrive qui rientra a pieno diritto in questa categoria e si diverte tantissimo nel farvi parte. Tuttavia, è proprio la replica seriale, e spesso poco intelligente, ad essere diventato un problema, anche abbastanza evidente, per quello che è il futuro della chitarra rock (e non solo). Tutto ciò nasce dal fatto che un simile meccanismo si sia protratto troppo a lungo sebbene in un brevissimo lasso di tempo (poco più di un decennio). Mi spiego: il web riesce a rendere il tempo e lo spazio due dimensioni schiacciate su sé stesse, quello che trent’anni fa avrebbe impiegato settimane ad essere diffuso, ora diviene virale in poche ore. Si tratta di un discorso trito e ritrito, che però nasconde in questa sua apparente banalità, alcune delle sue implicazioni più inquietanti. Il fatto è che - certamente complice la povertà di modelli interessanti cui ispirarsi – la replica seriale del suono o del solo “più uguale di quello del disco” ha portato, tramite il web, alla creazione di una vera e propria pellicola che si interpone tra il chitarrista e il suo modello di riferimento, costituita da un numero discretamente ampio di “imitatori” divenuti un punto fermo per l’intera comunità di chitarristi. Facciamo qualche esempio, tanto per farci un paio di risate: chi adora i led Zeppelin non può non passare per Jun626, anche prima di Jimmy Page; un Gilmouriano convinto, come può suonare i Pink Floyd senza prima aver consultato Bjorn Riss di “gilmourish.com” (o, per restare in Italia, Pierangelo Mezzabarba o Renato Pezzano)? E se amate i Beatles o gli Stones, non nascondetelo, lo avete visto anche voi qualche video di PrivettrickerRevival. Ebbene proprio quest’ultimo, che ha un canale immenso, tra i più seguiti del web – meritatamente aggiungerei – a causa dei tantissimi video su canzoni storiche, è diventato un punto fermo per moltissimi chitarromani, con le sue esecuzioni spesso approssimate e semplificate all’osso, mentre suona roba come “let’s spend the night together” in pigiama o in bermuda (e chissenefrega di Mick Jagger che a 70 suonati fa ancora il fico). Ebbene, PrivettrickerRevival - così come gli altri nomi detti in precedenza - è diventato, per tantissima gente, il modo per avvicinarsi alla chitarra di Keith Richards o di Ronnie Wood, piuttosto che di John Lennon o George Harrison, anche prima dell’ascolto viscerale dei dischi. In questo modo tanti - tantissimi - chitarristi hanno imparato le canzoni con i medesimi “errori” o le medesime semplificazioni di quel modello. Ma non si tratta di un caso isolato, cambiamo “bersaglio” – precisando il fatto che, molto spesso, questi imitatori-modelli siano veramente bravi con le mani – chi, tra i lettori di questo articolo, non ha mai imparato una canzone dalle dita tozze e dal sorriso sgargiante di Marty Schwartz? O chi non si è trovato ad invidiare il modo in cui suona il tipo di Justinguitar? I claptoniani vorranno forse negare di aver ascoltato, almeno una volta, qualche cover di Collin Stachowski? Ebbene, agli stessi rivolgo ora un’altra domanda: quanti di voi hanno cercato addirittura di emulare il suono di una di queste cover, piuttosto che dell’originale del disco? Lungi da me il fare di tutta l’erba un fascio, ma senza dubbio la provocazione ha i suoi riscontri nella realtà, talvolta divenuta deleteria. Non troppo tempo fa mi sono trovato a discutere con un “noto” imitatore del chitarrismo di David Gilmour e gli avevo fatto notare di come la sua esecuzione non fosse più una cover dei Pink Floyd, bensì quella di un video presente sul tubo di cui, oltre che a replicarne in toto l’attrezzatura – come se i pedali di questo fossero più “sacri” di quelli, già idolatrati, di Gilmour – condivideva la medesima semplificazione in uno dei fraseggi più belli del solo di “another brick in the wall (part 2)”. Ebbene, la discussione è andata un po’ in là con i toni, ma si era conclusa con un “sei un ignorante perché Gilmour utilizza un pedale prima della sezione preamp e poi un pedale solamente sul lato sinistro del suo set”, che è una citazione – quasi letterale – del medesimo video tutorial cui facevo cenno.
Detto questo, analizzando il mio stesso modo di suonare, mi trovo, mio malgrado, a confermare (perlomeno in parte) una simile teoria, cioè quella di essere diventato un esecutore di tracce, non tanto nel modo in cui vorrei o dovrei, ma piuttosto come sono abituato a sentir suonare quel disco o quel chitarrista dalle imitazioni web. Il chitarrista rock 3.0 è quindi non meno superficiale dell’utente medio di Instagram: così come su quel social network non conta la bellezza della foto o la verosimiglianza del soggetto (spesso riempito di fastidiosi filtri vintage), ma il modo in cui questa possa essere affine a centinaia di migliaia di altre foto; il nuovo chitarrista è diventato un imitatore di imitazioni e si è trasformato dall’odisseo in cerca di porti nuovi in giro per pub e locali tra birre e ubriacature, in una sorta di fashion blogger che deve ostentare, sempre meno dal vivo e sempre più su internet, la propria mercanzia. Mi verrebbe da estendere oltre il discorso, ma concludo qui, provocando ulteriormente già che ci sono: reputo il classico tubescreamer – la bibbia degli overdrive per molti – un pedale veramente bruttino e poco dinamico (de gustibus). Siamo davvero sicuri che suoni bene, o lo si crede perché sul web non c’è chitarrista che non ne abbia uno in pedaliera?
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