Mi abituai subito a Silvia. Complice il lavoro aumentato di quel periodo, evitai di considerare il tempo, evitai di osservarne i cambiamenti. Avevo la sensazione di vivere in un gigantesco deja vu. Ogni mattina uscivo di casa alle otto e trenta, incontravo le stesse persone giorno per giorno e per giunta nel medesimo punto come fosse un meccanismo sincronizzato. Il nostro rapporto iniziò così: a catena di montaggio. Le nostre vite erano due binari distinti che nel corso della giornata tentavano di trovare punti in comune. Più che un nido, il nostro era un nodo d'amore. Ormai avevo vissuto troppe esperienze simili, quindi capii subito che qualcosa non andava. Anche il sesso lo vivevo con uno strano stato d'animo, l'amavo come se recitassi. In realtà la possedevo con una segreta mancanza di rispetto a cui non ero abituato. Però mi piaceva fare così, scoprivo in me una nuova mascolinità egoista, in un certo senso ero felice, appagato. Dimenticavo ingenuamente la terribile sensibilità dell'animo femminile, quel sesto senso che c'era e non c'era in tutte le donne. Alla lunga Silvia capì i miei pensieri, li intuì come fossero rumorosi e goffi nell'esistere. Mi stupì il fatto che si arrabbiò non perché non l'amassi, ma perché non le avevo detto esattamente il modo in cui io consideravo il nostro rapporto. Non le sarebbe dispiaciuto se fossimo stati solo amanti e non innamorati, però avrebbe voluto saperlo prima, avrebbe voluto che la decisione l'avessimo presa insieme. Litigammo su incomprensioni che non c'erano, per principio più che per reale arrabbiatura. Alla fine decidemmo di continuare a stare insieme. Divenne un rapporto cinico fatto di appuntamenti conciliati, di voglie sincere saziate senza le metafore dell'amore. Non desideravo altre donne, o meglio, in quel periodo non incontrai donne che desideravo. Come maschio avrei dovuto sentirmi appagato, invece un senso di fastidio governava le mie giornate. Non avevo il coraggio di lasciare Silvia, sapevo che quel sesso prima o poi mi sarebbe mancato, l'appagamento dei sensi anestetizzava il malessere per la mia vigliaccheria. Poi il destino si mise di traverso in quel rapporto fatto di sudori leccati, di fantasie messe in pratica. Silvia ebbe un brutto incidente automobilistico, si schiantò contro un muro nel tentativo di evitare un bambino che attraversava incauto la strada a scorrimento veloce. Vissi attimi di angoscia ardente, provavo un ingiustificato senso di colpa; il nostro rapporto non c'entrava niente con l'incidente, eppure mi sentivo responsabile. Così la mia vita cominciò ad orbitare intorno all'ospedale in cui Silvia era ricoverata. Dopo qualche giorno il personale cominciava anche a riconoscermi, mi vedevano come un uomo innamorato in preda alla disperazione. Io mi lasciavo accudire dalla gentilezza di quelle amicizie disgraziate senza nemmeno farci caso. Ci volle un coma per farmi capire che io Silvia l'amavo, avrei dato la vita per vederla risvegliarsi, per risentire la sua voce. Ero disposto ad amarla anche senza sesso purché riaprisse gli occhi, purché sopravvivesse. Restò in quelle condizioni per due settimane durante le quali le rimasi accanto praticamente sempre; puzzavo di sudore stanco e di pianto ma non avevo la minima intenzione di allontanarmi da lei. In quindici giorni si svegliò tre volte ma solo per pochi secondi, i medici non riuscivano a destarla da quel sonno celebrale che la imprigionava. Finalmente, quando anche l'ultima speranza stava svanendo, Silvia aprì gli occhi ma questa volta definitivamente, sorrise, sorridemmo. Ci scoprimmo spossati ma reciprocamente innamorati. Mi disse che era felice di avermi trovato lì al risveglio, avrebbe voluto che fosse così in tutti i risvegli che ancora le restavano. Io per lei avrei anche ripudiato il sonno, l'avrei aspettata tutte le notti come un'alba. Come sono vicini amore e morte, capii che sono l'uno il contrario dell'altro. Era un giovedì freddo e la corsia dell'ospedale era illuminata a giorno. L'asettica tristezza della malattia impregnava le pareti, era intonacata nei muri. Io e Silvia uscimmo all'aria aperta, qualche stella bucava le nuvole mostrandoci la sua solitudine siderale. In macchina ci tenemmo per mano, per la prima volta entrambi sorridevamo con il medesimo sorriso. Ci avviammo verso casa. Guardai per un istante Silvia negli occhi prima di accendere il motore, mi sentivo felice. La notte è meno buia se la si attraversa insieme.
Raffaele Montesano