Mario Monteleone, oltre a essere uno degli Accordiani più anziani, con il numero di registrazione #10, è anche un docente dell'Università di Salerno. Sempre a contatto con le nuove generazioni, Mario ha maturato delle riflessioni su come i giovani possano essere la molla di una nuova rivoluzione culturale, ma solo se si forniscono loro i mezzi adeguati. Si riporta di seguito il suo intervento.
Sono contento di dire che l'esperienza con Accordo è forse quella che mi ha fatto crescere di più, culturalmente e come persona. Mi ha messo a contatto con un mondo che non conoscevo e che, contemporaneamente, si stava formando anche grazie a un piccolo contributo ma soprattutto grazie al contributo illuminante di Alberto, che secondo me è uno degli uomini più illuminati della cultura musicale italiana e forse anche europea.
Io insegno materie linguistiche all'università di Salerno. Sono qui dal '90, quindi faccio parte del tessuto sociale e culturale di questa città che è stata chiamata in causa sotto tanti aspetti, soprattutto da chi fa didattica anche in punti diversi della Nazione, da Gianni Rojatti, da Mauro Mormile, dal Maestro Volpe, dall'amico e collega Vito Iorio, che è qui in platea e con il quale condividiamo spesso lunghe chiacchierate che vanno dallo spessore delle corde delle chitarre fino ai massimi sistemi su come si suona un brano. Siamo perfettamente in tema, insomma.
Per introdurre il problema affrontato in questo caso da chi lavora all'interno di una struttura che fa didattica, parto dall'esempio di un'esperienza fatta da un'altra amica e collega, la professoressa Anna Cicalese. L'anno scorso noi abbiamo contribuito, per la web radio dell'Università di Salerno, Unis@und, a una serie di trasmissioni che collocavano, in cinque minuti all'interno di un anno preciso, il contesto musicale. Si parlava di storia, si parlava di musica e si parlava di arte. È stata una trasmissione molto interessante, una bellissima esperienza. Lì però, col tempo e poi anche a lezione con i ragazzi, abbiamo notato il grande gap tra la nostra e la loro generazione: c'è uno scollamento che riguarda una dimensione ben precisa, loro hanno perso il concetto di storicità. Per fare un esempio storico, non politico, questo vuol dire sentire Giuliano Amato come possibile Presidente della Repubblica e non conoscere tutto quello che è stato Mani Pulite, ascoltare i Led Zeppelin e non conoscere la guerra del Vietnam, perché magari a scuola non si studia più. Quando faccio lezione mi prendo cinque minuti per dire cose che non c'entrano niente. Qualche anno fa mi sono preso il lusso di parlare del cratone, che è questa enorme piattaforma geologica su cui, si dice, si possono costruire le centrali nucleari. La domanda seguente è stata: in Italia c'è un cratone? No, non ce n'è neanche uno. Recuperiamo questa dimensione, dico ai ragazzi, perché sapere per esempio chi è Bach o chi è Hendrix, vuol dire sapere un mucchio di cose prima. Per collocare anche la sonorità dell'assolo di "Something" di George Harrison bisogna conoscere lo strumento che usava, l'amplificatore che usava e soprattutto come suonava lui. Quindi bisogna studiare, bisogna recuperare quella dimensione di storicità che abbiamo perso. Non solo riguardo la musica, ma tutto quello che conosciamo e che loro non hanno vissuto. Questa potrebbe essere una soluzione per recuperare questo scollamento, per dare gli strumenti giusti ai ragazzi che devono essere necessariamente i responsabili di questa rivoluzione.
Cosa voglio dire con questo? Per prima cosa, le rivoluzioni vengono dal basso, anche e soprattutto quelle pacifiche nascono per esigenza. Devono coinvolgere i singoli che poi si riconoscono in gruppi e che poi cercano di ottenere dei risultati. La seconda cosa è che non c'è nessuna rivoluzione che non abbia un punto di riferimento culturale. Queste possono essere le Università. Oggi si parla tanto di decrescita. Avremmo dei dubbi sulle modalità della decrescita: è troppo lunga. Sicuramente la decrescita può portare a degli aspetti negativi e a degli aspetti positivi, però è da valutare: ci vuole troppo tempo per decrescere, ci vogliono trenta o quarant'anni e noi questo tempo non ce l'abbiamo. L'ultimo aspetto è questo: noi viviamo un momento di crisi profondissima che coinvolge tutto e, se recuperiamo il discorso della storicità precedente, la musica fa parte della storia e quindi è inevitabile che sia in crisi.
Cerchiamo soluzioni. Spesso soprattutto noi che siamo all'Università ci siamo sentiti maltrattati dal ministero. Anche chi fa scuola la pensa alla stessa maniera. Sostanzialmente dobbiamo, brutalmente e in maniera cinica, analizzare un dato: non usciamo fuori da questa crisi. Questo perché probabilmente le strutture didattiche, quelle che dovrebbero esprimere il pensiero nuovo, quello che serve a trovare una soluzione a problemi importanti, funzionano male. Però probabilmente qualcosa possiamo dirla, anche per speranza, e cioè: è la cultura che deve risolvere i problemi della cultura. Anche nell'aspetto del rapporto con la musica, cioè collocare un brano all'interno di un concerto di canzoni di protesta che fa parte di un periodo storico che riguarda quell'elemento storico, per esempio la guerra in Vietnam. Qualcuno dirà che è storia vecchia, ma attenzione che può tornare, e quindi cosa fare? Una delle cose più strane è che questo periodo di crisi non abbia ancora una colonna sonora. Non c'è una musica, come invece è successo per il Vietnam… non c'è un Woodstock, però non possiamo più credere che la politica o l'economia ci diano una mano. Non può essere, perché viviamo in un periodo in cui il concetto di ideologia politica viene sottomesso a quello che è il concetto economico, e quindi l'ideologia, quella che aiutava a compiere delle scelte, è veramente di secondo o terzo livello. Siamo sotto. Dobbiamo credere nelle nostre possibilità, nel nostro piccolo momento quotidiano, quando vendiamo strumenti. Dire per esempio "guarda, questa è la stessa chitarra che George Harrison usa per incidere Abbey Road. Che cos'è Abbey Road? Beh, te lo vai a vedere!". Dare stimoli, dare spunti per far crescere. Questa è una cosa che la politica contemporanea non ha capito, ma l'unico grande patrimonio che abbiamo sono i ragazzi. Ragazzi di 15, 18, vent'anni che devono ancora capire cosa faranno da grandi. Noi dobbiamo tutelarli, ovvero dare loro gli strumenti critici per collocarsi all'interno della storia e sapere che c'è un prima e un dopo, e che il prima è fatto di tante altre cose diverse, come per esempio la musica degli anni '70, che non è detto che sia morta: magari torna e noi torniamo a vendere tutti strumenti e dischi come si faceva una volta.
Mario Monteleone
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