Gwynnett Twiggy: 5 watt di pura proiezione artigianale
di Pietro Paolo Falco [user #17844] - pubblicato il 04 giugno 2016 ore 07:30
Quando si contano soli cinque watt risulta difficile pensare di poterci affrontare un concerto, ma quando ho collegato la piccola Twiggy a una cassa 4x12 mi sono ricreduto. Ecco come suona una single-ended a base di 12AX7 ed EL84 nata per il crunch e per bucare il mix.
Basta scambiare quattro chiacchiere con qualunque professionista del settore per giungere a una considerazione unica: parlare di watt in campo audio e per ciò che riguarda gli amplificatori per chitarra è fuorviante oltre che inutile. Siamo abituati a valutare un amplificatore in base al numeretto che porta sullo chassis accanto al simbolo "W", decidendo intorno a quello se sarà in grado di farsi valere su un palco. Dimentichiamo troppo spesso che il wattaggio è sì legato alla potenza di un amplificatore, ma non necessariamente alla pressione sonora che è in grado di sprigionare né alla sua capacità di bucare un mix. Non è detto che un amplificatore più potente si faccia sentire meglio all'interno di una band, e saranno ben altri i parametri costruttivi che decideranno quanto le note emesse possano essere intellegibili e ricche in casa a bassi volumi quanto altrove a livelli più sostenuti. Dire che un piccolo amplificatore da cinque watt con una sola EL84 nel finale e una piccola 12AX7 nel preamplificatore può farsi sentire forte e chiaro in una sala affollata può sembrare un'eresia, ma lasciate che vi racconti una storia.
Durante l'edizione 2012 di SHG, su un anonimo tavolino privo di banner e insegne giacevano delle piccole testate dall'aspetto profondamente artigianale. Niente decal né cabinet elaborati, ma qualche amplificatore seminudo tra cui quello più piccolo, con su il nomignolo "Twiggy", era collegato all'altoparlante. Si trattava di un valvolare di stampo british con un solo canale, un controllo Master, un Tono, un Gain e un send-return accessibile direttamente dallo spartano pannello frontale. L'unica valvolina del finale sprigionava non più di cinque watt, ma questo forse non lo sapeva chi, dall'altra parte della sala, ne sentiva il suono chiedendosi da quale stand provenisse quel crunch ai limiti del fuzz. Dietro il tavolino sedeva Gwynnett, affezionato lettore di Accordo e conosciuto nel giro per i veri e propri giochi di prestigio che è capace di fare con un saldatore in mano. Sornione, restava un attimo in silenzio e sorrideva quando gli chiedevano di abbassare un po' il volume, prima di far notare da quale piccolezza arrivasse quel suono così presente e distinto nel brusio di una sala zeppa di chitarre e chitarristi. Da qualche tempo sono riuscito a mettere le mani su una di quelle testatine e mi è tornato in mente quel ghigno piacione, insieme alla spiegazione criptica di Gwynnett: "il Twiggy non è un amplificatore, il Twiggy è un'idea".
In effetti, definire il carattere del Twiggy non è affatto facile. Non spicca per la versatilità dei controlli ma ha tante voci quante sono le intenzioni dei musicisti che ci collegano i propri strumenti (non a caso è stato usato in questo articolo sul suono e le sue interpretazioni), non ha una potenza elevata ma difficilmente si spingerà il master oltre le ore 2, è un piccolo cinque-watt da quattro e otto ohm ma pilota che è una bellezza anche una 4x12 come la DV Mark usata per il video.
Il Twiggy è una macchina da Presence pura e semplice. Lo si può usare col gain basso e con il tono quasi chiuso, e così restituirà un suono caldo, pieno, appena nasale e con bassi mai invadenti, ideale per il blues in cui solo le corde pestate più forte avranno un accenno di increspatura, o forse solo un po' di sostegno in più. Tuttavia è quando si apre un po' il filtro che viene fuori la sua vera natura. Non serve alzare il volume per farsi sentire e ogni nota è definita, sparata fuori netta e a fuoco, una vera forza quando si decide di spingere un po' sul gain. Il suono armonico di una Stratocaster è il suo terreno preferito, e quando subentra la saturazione è un piacere sentire il modo in cui comprime appena, di quella compressione "buona" che non ammazza la dinamica né rende più facile suonare, ma anzi fa emergere ben udibile ogni sfumatura del suonato, quelle buone quanto le cattive. Per il chitarrista medio la prova potrebbe anche finire qui, ma per comprenderne a fondo l'essenza bisogna andare ancora oltre, portare il gain a fine corsa o quasi e tenere i toni più aperti. Che si usi un single coil o un humbucker (in video sono saggiati entrambi, rispettivamente al manico e al ponte), quello che viene fuori è un vero e proprio fuzz vintage. La saturazione non è eccessiva a meno di non usare una chitarra dall'output elevato, i bassi spariscono quasi, non c'è rischio che ingolfino perché il suono è tutta proiezione, medio-alti che fanno bucare qualunque mix e riportano alle valvole strozzate dei grandi dischi anni '60. Il tutto avviene nel silenzio quasi assoluto, a parte il ronzio che viene dalla chitarra, grazie a una progettazione attenta al dettaglio in maniera maniacale.
La pasta sonora del Twiggy è calda quando serve, presente sempre, ma maleducata alla base. Non ha riverbero, non ha controlli per elaborare di fino l'equalizzazione, bisogna imparare a conoscerlo e ad avere a che fare con un tono solo e con la sua interazione con le armoniche generate dal Gain. Quello che serve però è sempre lì, con tutte le frequenze giuste per sfidare ogni legge nella fisica nei pochi watt che lo vorrebbero udibile solo in condizioni favorevoli e solo se ben saturo, e invece...
Non si può trasmettere in video il vero volume mosso dal piccolo cinque-watt, ma vi basti sapere che il clip è stato girato a livelli da sala prove e non è stato mai necessario (leggasi "possibile") portare la manopola Master oltre metà corsa. Il Twiggy, come si diceva, non è un amplificatore: è un'idea. Bisogna metterci sopra le mani per capirlo, e se eravate a quell'SHG sapete di cosa parlo.