Vorrei scrivere che Steve Vai è il miglior chitarrista al mondo. Se non fosse che, dopo averlo visto dal vivo a Padova nell’ultima tappa del tour italiano, mi chiedo se Vai sia ancora un chitarrista. A concerto finito, la sensazione era quella che la sua chitarra suonasse da sola. Come se Vai l’avesse tanto amata e nutrita di passione, dedizione e pulsioni selvagge da animarla. E così, sul palco è come se si vedessero due ballerini impegnati in un passo a due. Steve e la sua Ibanez.
Ora perfettamente coordinati, ora magicamente indipendenti nell’improvvisazione. Immaginate un artista come Prince, Madonna o Michael Jackson che balla sul palco con il violino di Paganini che gli ondeggia attorno, sospeso in aria. La chitarra di Vai è viva. A tratti c’è davvero l’impressione che suoni da sola e che il chitarrista non la sfiori nemmeno più con la mano destra. Questa ondeggia elegante e nervosa scandendo le coreografie dei suoi passi di danza e disegnando nell’aria le figure pazzesche della sua musica. Sembra fare tutto la sinistra che esegue sul manico linee melodiche impervie e surreali. Ma è un trucco. Perché non basterebbero cento mani per fare quello che esce dagli amplificatori di Vai. La chitarra suona da sola e in quello che fa non c’è traccia di intervalli, scale, arpeggi. Non c’è nulla di apparentemente codificabile. E’ un flusso musicale magico e alato, pronunciato con il DS1 acceso sopra il gain al massimo della testata. Il virtuosismo di Vai è dissacrante e ondeggia ora lascivo, ora regale tra il misticismo e la pornografia. Tra melodie melliflue, sospirate con armonici, legati, slide e singhiozzi osceni di leva, strapazzata con la furia cieca di un adolescente che scopre l’autoerotismo.
Vai fa cose che semplicemente non si possono fare. Tiene la chitarra in aria: la regge per la cinghia con la destra e cammina per il palco. Nel frattempo, la sinistra scandisce melodie perfette, intonatissime. Si agita impazzito, con la chitarra dietro la testa, strapazzandola e, anziché il caos, dall’amplificatore continua a uscire una sola, precisissima, nota. Come quando agita brutale la leva tirata dietro al ponte e nel marasma delle corde che sbattono, riesce a suonare con i glissati una melodia nitidissima. Tiene sofferenti e sospese, a un passo dal larsen, le testate imballate dei suoi amplificatori. E solo quando le valvole implorano pietà lui le fa esplodere in un feedback lancinante, innescato con un armonico preso e trascinato poi attraverso una corda con la lingua.
Poi, quando abbandona le urla, i miagolii, i latrati della sua chitarra per tornare a farla suonare in maniera tradizionale, lascia attoniti di fronte a una pulizia, una pronuncia ritmica e un’articolazione tecnica inumane: la plettrata di "For The Love Of God", la ritmica di "Answers" o il legato di "Tender Surrender " sono assoluta perfezione formale. Una tecnica comunque che Vai riesce a non far passare mai come meramente accademica e meccanica, anche nei momenti più esagerati ed esasperati: una pausa inattesa e scomposta, un rumore grottesco di leva sdrammatizzano sempre anche il momento più lirico e auto celebrativo.
Ora non uscite con la solita polverosa storia che questo è circo, non musica. Fareste la figura dei vecchi tromboni con le orecchie foderate. Tutte le deliziose mostruosità che Vai combina sul palco avvengono non all’interno di un assolo circense ma perfettamente incastonate, come parte integrante, scritta e vitale di composizioni, canzoni. Sono musica e per di più musica con la M maiuscola, suonata nella maniera più spettacolare alla quale potreste mai sperare di assistere. Vai ha vinto. Hanno vinto il suo genio, la sua musica, la sua tenacia nel non fermarsi mai. Hanno vinto contro chi lo ha definito per decenni un virtuoso senza cuore, un fenomeno da baraccone: tutta tecnica, zero feeling. Ha vinto contro quelli che dicevano che suonare la chitarra così era una moda e che Nirvana, Oasis e poi Radiohead e Coldplay avrebbero spedito in pensione lui e la sua vetusta Ibanez fluo. Oggi Vai è più famoso che mai, riempie, in giro per il mondo, teatri immensi come il Geox di Padova dove la sua faccia e il suo nome nei cartelloni erano grandi come quelli di Bob Dylan. Non male per un ragazzotto che ha fatto solo musica strumentale con gli assoli in tapping!
E Steve Vai si lascia alle spalle anche tanti altri virtuosi. Musicisti che dopo esordi tecnicamente rivoluzionari - capaci di scuotere il mondo della tecnica chitarrista - piano, piano viravano verso forme sempre più semplificate e immediate di comunicazione. Un’evoluzione fisiologica, legata magari alla maturità, che ha spinto spesso gli shredder ad abbassare sempre di più il livello di gain dei loro amplificatori e a sperimentare, più o meno timidamente, con blues, jazz o semplice rock più tradizionale. Concentrandosi più sul tocco e l’espressività, abbandonando la ricerca, la sperimentazione e la tecnica. Vai invece non si è mai fermato. Quello che esegue oggi, a cinquant’anni suonati, è la magnifica, incredibile evoluzione delle cose, già impossibili, che suonava da giovanissimo con Zappa, o i .. E’ la tesi di laurea contro il tema di matura. Uno straordinario percorso di ricerca ed evoluzione musicale e artistica che Vai ha perseguito con coerenza ortodossa, dedizione folle, lontanissimo dalle più tradizionali e depositate forme di chitarrismo.
Vai ha lavorato moltissimo anche sulla sua performance e ha ballato dall’inizio alla fine del concerto. Negli anni ha attutito fino quasi ad azzerare l’attitudine metal del suo show. Sembra di assistere più a musical che a un concerto rock.
Il concerto di Padova è stato magnifico. Vai ha proposto un repertorio variegato, mescolando in maniera equilibrata la sua produzione più recente e i classici del suo repertorio. Inatteso e riuscitissimo un set acustico in cui Vai ha rispolverato e arrangiato leccornie dal passato come “Salamanders in the sun” dal suo esordio o “Rescue me or bury me”.
Doveroso un plauso alla band, ineccepibile nell’eseguire e assecondare le follie Vaiane: Jeremy Colson alla batteria; Philip Bynoe al basso e il tuttofare Dave Weiner alla chitarra e qualche sporadica digressione alle tastiere.
Foto Cristian Grego